Meriti della regia nella Fedora di Daniela Dessì
Il primo incontro con Jon Fosse è piuttosto difficile: è un autore che non dà soddisfazione immediata. Inverno, regia di Valter Malosti del 2004, era un notevole spettacolo ma non credo di averne tratto un reale profitto. Lo stesso accadde con Un giorno d’estate e E la notte canta messi in scena nel 2008 da Valerio Binasco: in quegli spettacoli colpiva la cifra stilistica del regista, allora innovativa, quello stile che chiamiamo naturalistico e che aveva di distintivo una qualità di nonchalance così radicale da procurare irritazione; verso chi, verso Fosse o verso Binasco?
Furono inquietanti i Fosse di Patrice Chéreau, Rêve d’automne e Je suis le vent: il primo mutava la scenografia originale, un cimitero, in un museo; nel secondo i due uomini si fronteggiavano su una zattera immaginaria, come da didascalia, ma sotto la zattera c’era vera acqua, quasi un mare. Mi ero fissato, camminavo per le strade di Avignone ripetendo a me stesso: Je suis le vent… Mi ero fissato, ma capivo? La conversione fu a Rieti la scorsa estate. Accadde con gli spettacoli di due giovani registi, Io sono il vento di Alessandro Greco e Inverno di Vincenzo Manna. Ma anche questi credo di averli capiti solo ora, durante il Progetto Fosse dell’Argentina di Roma (c’era anche Thea Della Valle con Suzannah), e dopo aver visto di nuovo Inverno di Oskaras Korsunovas, a Prato.
Al Fabbricone l’incontro tra un uomo e una donna che si desiderano in momenti diversi è uno spettacolo discontinuo, a cominciare dal fatto che Ruta Papartyte parla in un italiano incerto (pur affascinante), e che il persuasivo Marco Brinzi appare sopraffatto dalla donna di cui s’è innamorato (Korsunovas, per quanto in modo astratto, rivela come il contatto carnale tra l’uomo e la donna sia decisivo nel rovesciare le sorti del rapporto).
Lo stesso Inverno di Manna, che sostituisce l’uomo con una donna (il rapporto tra due donne risulta più ambiguo, più profondo), a dire tra chi ha visto Insieme Ruta Papartyte e Marco Brinzi in una scena di «Inverno», scritto dal drammaturgo Jon Fosse l’edizione di Rieti e quella di Roma, nella seconda aveva acquistato in intimità ma attenuato la carica eversiva, rivoluzionaria della prima (la definii rock). Quale la deduzione? quale la chiave? Me la fornirono Malosti e Binasco che in un convegno dedicato a Fosse improvvisarono una lettura di Io sono il vento tutt’affatto emotiva, carica di struggente intensità