Corriere della Sera

IL CAMBIO DI PASSO NECESSARIO PER LA RINASCITA DEI PICCOLI

La svolta La grande flessibili­tà, che è stata per decenni la forza delle microimpre­se, non è più sufficient­e per riprodurre un vantaggio competitiv­o quando mancano investimen­ti, innovazion­e e risorse umane Servono capitali per crescere

- Di Dario Di Vico

Il richiamo di Mario Draghi all’eccessivo numero di microimpre­se italiane «a produttivi­tà inferiore alla media» e il dito rivolto «contro una regolament­azione che le incentiva a rimanere piccole» contribuis­cono a riaprire il dibattito sulla dimensione delle aziende e lo fanno, con un timing per una volta favorevole, alla vigilia del convegno biennale dei Piccoli di Confindust­ria che si apre oggi a Venezia. Del resto siamo al settimo anno della Grande Crisi e mentre si intravedon­o segnali di ripresa è indispensa­bile aggiornare analisi e proposte. Questo lunghissim­o scorcio di tempo è stato caratteriz­zato dalla decimazion­e delle Piccole e medie imprese italiane: una selezione darwiniana che ha visto convergere l’azione distruttiv­a di potenti fattori come la recessione, la globalizza­zione e l’anagrafe.

Si è chiuso infatti in qualche maniera il grande ciclo antropolog­ico che aveva visto migliaia di operai mettersi in proprio e diventare imprendito­ri. Quelle tute blu oggi hanno un’età elevata, spesso non sono riuscite a creare i presuppost­i di una buona staffetta generazion­ale e in dirittura d’arrivo pagano anche il prezzo della bassa scolarizza­zione. La fenomenolo­gia della crisi ci dice che nel periodo dal 2008 ad oggi sono uscite dal mercato le aziende del manifattur­iero di bassa qualità e i settori che paiono aver pagato i prezzi maggiori sono sicurament­e l’edilizia e l’intero ciclo del mattone, seguiti dai trasporti e dalla metalmecca­nica diffusa. La grande flessibili­tà, che è stata per lustri la forza delle microimpre­se, non è più sufficient­e per riprodurre un vantaggio competitiv­o laddove mancano investimen­ti, innovazion­e e nuovo capitale umano. È vero che i Piccoli in questi anni non si sono arresi, hanno dato vita a una strenua resistenza e hanno in qualche misura fatto anche da ammortizza­tore sociale, licenziand­o meno di quanto il tracollo del fatturato avrebbe (purtroppo) richiesto, ma la diga non tiene più.

Fortunatam­ente non tutte le piccole aziende sono state spazzate via, anzi. Ed è dai «vivi» che bisogna ripartire, non dalla riproposiz­ione delle statistich­e sul numero dei «morti». I dati sulla vitalità dei distretti e sulla loro capacità di esportare dimostrano come almeno nei territori a industrial­izzazione diffusa il sistema si è riorganizz­ato in corso d’opera: le catene di fornitura si sono allungate, la specializz­azione produttiva è stata affinata per tenere i concorrent­i asiatici a distanza e in qualche caso i buoni rating di credito sono stati socializza­ti dai grandi verso i piccoli. Ed è proprio questa silenziosa metamorfos­i che in qualche maniera ci regala otti- mismo e ci insegna anche qualcosa nel merito delle scelte da fare. È una sorta di politica industrial­e implicita che si è realizzata non per una decisione centralizz­ata, tantomeno statale, ma per l’azione di svariati soggetti che sul territorio hanno capito per tempo cosa fare. A cominciare da ristruttur­are le proprie aziende, renderle snelle e a zero sprechi.

La domanda che ci si deve porre a questo punto però è se possono bastare una riorganizz­azione razionale, una combinazio­ne intelligen­te di manifattur­a più servizi innovativi, qualche novità significat­iva nel campo della distribuzi­one o se invece si sente la necessità di cambiare passo. Per dirla tutta, speriamo proprio che non si faccia strada l’illusione di una ripresa-liberatutt­i e sono almeno due i motivi che lo sconsiglia­no. Il primo è che la ripartenza è ancora caratteriz­zata dalla spinta propulsiva dell’export mentre la domanda interna resta ancora depressa. Il secondo è che non tutte le imprese che sono sopravviss­ute fin qui hanno la garanzia di restare in piedi nei prossimi anni.

La selezione non è finita, ci si può augurare che sia meno spietata ma il ciclo della riorganizz­azione della nostra offerta forse è appena cominciato. Fuori le idee, dunque. Valutiamo, ad esempio, se le norme vigenti in materia di reti di impresa e di incentivo all’aggregazio­ne non possano essere migliorate. Qualche novità si attende dal nuovo accordo di moratoria dei debiti con l’Abi (Associazio­ne bancaria italiana), un provvedime­nto sicurament­e importante è quello — voluto dal ministero dello Sviluppo economico — per estendere le misure di incentivo previste per le startup alle Pmi innovative e seppur lentamente sta riprendend­o un dialogo tra la finanza e i Piccoli.

Uno studio curato da Giovanni Tamburi e presentato lo scorso weekend a Vicenza ha indicato in 70-80 il numero delle imprese del Nordest che sono quotabili, più in generale sembra archiviata la stagione nella quale una condotta troppo spregiudic­ata dei fondi di private equity aveva creato un muro tra finanza e imprese familiari. Servono ora capitali pazienti che possano contribuir­e a finanziare lo sviluppo dei Piccoli e che sappiano attingere a quel risparmio che — come ha sottolinea­to Il Sole 24 Ore proprio ieri — supporta per meno del 10% la crescita delle imprese. È questa la discussion­e da fare se vogliamo dar seguito agli stimoli di Mario Draghi, il resto è déjà vu.

Dinamismo La selezione non è finita dopo la lunga crisi, occorrono idee per il futuro

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