IL CAMBIO DI PASSO NECESSARIO PER LA RINASCITA DEI PICCOLI
La svolta La grande flessibilità, che è stata per decenni la forza delle microimprese, non è più sufficiente per riprodurre un vantaggio competitivo quando mancano investimenti, innovazione e risorse umane Servono capitali per crescere
Il richiamo di Mario Draghi all’eccessivo numero di microimprese italiane «a produttività inferiore alla media» e il dito rivolto «contro una regolamentazione che le incentiva a rimanere piccole» contribuiscono a riaprire il dibattito sulla dimensione delle aziende e lo fanno, con un timing per una volta favorevole, alla vigilia del convegno biennale dei Piccoli di Confindustria che si apre oggi a Venezia. Del resto siamo al settimo anno della Grande Crisi e mentre si intravedono segnali di ripresa è indispensabile aggiornare analisi e proposte. Questo lunghissimo scorcio di tempo è stato caratterizzato dalla decimazione delle Piccole e medie imprese italiane: una selezione darwiniana che ha visto convergere l’azione distruttiva di potenti fattori come la recessione, la globalizzazione e l’anagrafe.
Si è chiuso infatti in qualche maniera il grande ciclo antropologico che aveva visto migliaia di operai mettersi in proprio e diventare imprenditori. Quelle tute blu oggi hanno un’età elevata, spesso non sono riuscite a creare i presupposti di una buona staffetta generazionale e in dirittura d’arrivo pagano anche il prezzo della bassa scolarizzazione. La fenomenologia della crisi ci dice che nel periodo dal 2008 ad oggi sono uscite dal mercato le aziende del manifatturiero di bassa qualità e i settori che paiono aver pagato i prezzi maggiori sono sicuramente l’edilizia e l’intero ciclo del mattone, seguiti dai trasporti e dalla metalmeccanica diffusa. La grande flessibilità, che è stata per lustri la forza delle microimprese, non è più sufficiente per riprodurre un vantaggio competitivo laddove mancano investimenti, innovazione e nuovo capitale umano. È vero che i Piccoli in questi anni non si sono arresi, hanno dato vita a una strenua resistenza e hanno in qualche misura fatto anche da ammortizzatore sociale, licenziando meno di quanto il tracollo del fatturato avrebbe (purtroppo) richiesto, ma la diga non tiene più.
Fortunatamente non tutte le piccole aziende sono state spazzate via, anzi. Ed è dai «vivi» che bisogna ripartire, non dalla riproposizione delle statistiche sul numero dei «morti». I dati sulla vitalità dei distretti e sulla loro capacità di esportare dimostrano come almeno nei territori a industrializzazione diffusa il sistema si è riorganizzato in corso d’opera: le catene di fornitura si sono allungate, la specializzazione produttiva è stata affinata per tenere i concorrenti asiatici a distanza e in qualche caso i buoni rating di credito sono stati socializzati dai grandi verso i piccoli. Ed è proprio questa silenziosa metamorfosi che in qualche maniera ci regala otti- mismo e ci insegna anche qualcosa nel merito delle scelte da fare. È una sorta di politica industriale implicita che si è realizzata non per una decisione centralizzata, tantomeno statale, ma per l’azione di svariati soggetti che sul territorio hanno capito per tempo cosa fare. A cominciare da ristrutturare le proprie aziende, renderle snelle e a zero sprechi.
La domanda che ci si deve porre a questo punto però è se possono bastare una riorganizzazione razionale, una combinazione intelligente di manifattura più servizi innovativi, qualche novità significativa nel campo della distribuzione o se invece si sente la necessità di cambiare passo. Per dirla tutta, speriamo proprio che non si faccia strada l’illusione di una ripresa-liberatutti e sono almeno due i motivi che lo sconsigliano. Il primo è che la ripartenza è ancora caratterizzata dalla spinta propulsiva dell’export mentre la domanda interna resta ancora depressa. Il secondo è che non tutte le imprese che sono sopravvissute fin qui hanno la garanzia di restare in piedi nei prossimi anni.
La selezione non è finita, ci si può augurare che sia meno spietata ma il ciclo della riorganizzazione della nostra offerta forse è appena cominciato. Fuori le idee, dunque. Valutiamo, ad esempio, se le norme vigenti in materia di reti di impresa e di incentivo all’aggregazione non possano essere migliorate. Qualche novità si attende dal nuovo accordo di moratoria dei debiti con l’Abi (Associazione bancaria italiana), un provvedimento sicuramente importante è quello — voluto dal ministero dello Sviluppo economico — per estendere le misure di incentivo previste per le startup alle Pmi innovative e seppur lentamente sta riprendendo un dialogo tra la finanza e i Piccoli.
Uno studio curato da Giovanni Tamburi e presentato lo scorso weekend a Vicenza ha indicato in 70-80 il numero delle imprese del Nordest che sono quotabili, più in generale sembra archiviata la stagione nella quale una condotta troppo spregiudicata dei fondi di private equity aveva creato un muro tra finanza e imprese familiari. Servono ora capitali pazienti che possano contribuire a finanziare lo sviluppo dei Piccoli e che sappiano attingere a quel risparmio che — come ha sottolineato Il Sole 24 Ore proprio ieri — supporta per meno del 10% la crescita delle imprese. È questa la discussione da fare se vogliamo dar seguito agli stimoli di Mario Draghi, il resto è déjà vu.
Dinamismo La selezione non è finita dopo la lunga crisi, occorrono idee per il futuro