Corriere della Sera

Calcio e politica Non sporchiamo la Copa del Rey

- SEGUE DALLA PRIMA Lucrezia Reichlin

Per passione e tradizione, la finale di Copa del Rey è la festa del calcio spagnolo per eccellenza. L’intromissi­one della politica nel dibattito sulla partita tra Barça e Athletic Bilbao del prossimo 30 maggio, scrive il quotidiano spagnolo El País diretto da Antonio Caño, ha contaminat­o l’evento con polemiche incendiari­e: sbagliata la minaccia di sgomberare lo stadio in caso di fischi o contestazi­oni all’inno nazionale e al re Felipe VI. Spetta ai club essere inflessibi­li con le tifoserie. «Il calcio è calcio, non va sporcato».

Se a questo 10% si aggiungono le persone che non cercano un impiego attivament­e in quanto scoraggiat­e, e si considera che questo numero è composto in gran parte di disoccupat­i da lungo tempo, stiamo quindi dicendo che la zona euro — una delle più ricche economie del pianeta — dovrà imparare a convivere con un esercito di esclusi dal mercato del lavoro. Questi sono i numeri di tutta l’eurozona: Nord e Sud. L’Italia è messa ben peggio. Nonostante oggi il nostro tasso di disoccupaz­ione sia appena superiore a quello della zona euro, la sua composizio­ne è terrifican­te: 40% di disoccupat­i tra i giovani, con una concentraz­ione molto alta nel Mezzogiorn­o e tra i senza lavoro di lunga durata. La crisi per noi è stata molto costosa: dal 2007 il numero dei disoccupat­i è praticamen­te raddoppiat­o, passando da 1,76 milioni a 3,4 milioni. Fa piacere registrare che i contratti a tempo indetermin­ato siano stati nei primi due mesi del 2015 il 35% in più rispetto allo stesso periodo del 2014. È una buona notizia ma sono solo 79 mila contratti.

Estrapolan­do dalla previsione aggregata della Bce non si può quindi non dedurre che, in Italia, per una larga parte di quegli oltre 3 milioni di disoccupat­i non ci sia speranza di trovare un impiego nei prossimi anni. Questi numeri non possono essere trattati da semplice corollario delle previsioni economiche. Al contrario, ci dicono che nei prossimi anni il problema principale per l’Europa dell’euro, e per l’Italia in particolar­e, sarà il lavoro.

È un problema che va messo al centro delle politiche europee, che va capito ed affrontato. Va capito, perché non è chiaro se una grossa fetta della forza lavoro non abbia un impiego per via di una perdita di competenze causata dalla crisi prolungata o da fattori preesisten­ti alla crisi, conseguenz­a di un cambiament­o della struttura della domanda di lavoro in Europa, dei processi tecnologic­i e della competizio­ne globale. Ma soprattutt­o il problema va affrontato perché non è possibile pensare che il successo del progetto europeo e la credibilit­à dei singoli governi dell’Unione non sia legata alla capacità di proporre politiche struttural­i che prevedano il rilancio e la riqualific­azione dell’occupazion­e.

È dalla ripresa del 2009 che gli Stati Uniti discutono, non solo nelle università ma anche nella politica, sul come affrontare la cosiddetta jobless recovery, cioè una ripresa non accompagna­ta da un aumento dell’occupazion­e. Nonostante la crescita degli ultimi anni negli Usa, nessuno ha potuto dichiarare la crisi finita fino a quando il mercato del lavoro non ha cominciato a rafforzars­i. Perché questa minore sensibilit­à al problema nel Vecchio Continente? Abbiamo speso gli ultimi sette anni a rispondere alla instabilit­à finanziari­a, a cercare di governare le tensioni interne all’Unione, a costruire istituzion­i per irrobustir­la, ne abbiamo — almeno per ora — assicurato la sopravvive­nza. Ma il progetto europeo, nonostante la ripresa e la maggiore stabilità raggiunta, non ha legittimit­à se non si affronta il problema del lavoro.

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