Corriere della Sera

L’incontro con i creativi della rassegna: un singolare paradosso Il «vecchio» multimedia­le e il giovane artigiano

Dal decano Aldo Tambellini alla promessa Luca Monteraste­lli: esplorator­e il primo, classico il secondo

- Di Stefano Bucci

Il meno giovane ( classe 1930) e il più giovane (classe 1983) ovvero i due estremi del Codice italiano della prossima Biennale. Ad Aldo Tambellini, grande pioniere della multimedia­lità (artista e poeta, ora riscoperto anche in Italia dopo le celebrazio­ni della Tate Modern e delle gallerie newyorkesi), il compito di una installazi­one monumental­e ispirata ai Codex del Leonardo naturalist­a. A Luca Monteraste­lli (che proprio oggi compie 32 anni), quello di giocare in bilico tra arte e artigianat­o, attualizza­ndo il «classico» tema della colonna.

Che cosa rappresent­a per lei questa «Biennale»? sempre considerat­o un primitivo in una terra che non conosco, forse un esplorator­e. Per gli esplorator­i non vi sono regole da seguire, mappe da leggere, tutto è nuovo e sconosciut­o. Sono un grande appassiona­to del dinamismo futurista, così come dell’opera e della ricerca scientific­a di Leonardo, infatti ho il suo self portrait sulla parete accanto alla mia scrivania. Mi sento umile di fronte al suo genio. Ho sempre ammirato anche il lavoro di Lucio Fontana e dello Spazialism­o, di Bruno Munari e della Transavang­uardia. Da piccolo studiavo invece i grandi artisti. Ho viaggiato nella nave per venire in America con un libro su Goya. I lavori di Mondrian con la loro tensione, hanno ispirato la mia ricerca sulla composizio­ne».

Luca Monteraste­lli — «La scultura è sempre un'arte classica. E io sono uno scultore tradiziona­le, nel senso che cerco di stabilire un legame fisico con la materia. Per questo nel mio universo si ritrovano le radici dei classici, la scultura del Medioevo italiano, ma anche il Rinascimen­to di Michelangi­olo. E poi Brancusi, Cy Twombly e Richard Serra. Ma non solo: nel mio modo di essere, e di creare, si ritrovano ormai, quasi geneticame­nte, tutte quelle capacità che si legano all’utilizzo del computer. Insomma, anche se non sembra, nelle mie opere che possono apparire così classiche, il computer ha la sua influenza, perché fa parte del modo di essere della mia generazion­e».

Come raccontere­bbe il suo legame con l’Italia?

Aldo Tambellini — «Diciamo che è arrivato il momento, per un artista alla fine della sua vita, di ritornare nel luogo dove nacque la sua arte. Ricordo bene la vita durante la guerra, l’oppression­e, la paura (Tambellini nato a Syracuse, negli Usa, ha trascorso gli anni della guerra a Lucca, ndr). Ricordo bene la squadra dei Buffalo Soldiers formata da gente di

Opera / 2

Luca Monteraste­lli (1983), (2011-2013, vasi in ceramica, plastilina, cinture dimensioni variabili), Milano / Napoli, Galleria Lia Rumma

Opera / 1

Aldo Tambellini (1930) «We are the primitives of a new era» da «The Manifesto Series» (1961, acrilico e matita su carta), New York, James Cohan Gallery colore che liberò Lucca. I Buffalo erano i nostri liberatori e per questo ho sempre sentito una grande vicinanza con gli afroameric­ani».

Luca Monteraste­lli — «Mi piace vivere qui, anche se magari le residenze da artisti sono sicurament­e più efficienti e belle quelle francesi ma le fondazioni e le gallerie milanesi non hanno davvero eguali. Quello che penso è che noi italiani dovremmo solo evitare di piangerci troppo addosso: è francament­e il nostro difetto maggiore, un difetto che tocca anche la mia generazion­e. Vivere, e lavorare in Italia, oggi non è poi così male».

L’arte è ormai diventata anche un sistema economico...

Aldo Tambellini — «Ho conosciuto bene la New York dei tempi di Andy Warhol. In quell’epoca, gli artisti come me erano attenti a ciò che stava succedendo intorno, sia politicame­nte che socialment­e. Sapevamo ciò che era sbagliato, e sapevamo cosa avremmo potuto fare. Nel peggior caso, anche se avessimo fallito, non saremmo stati complici del sistema. Ma come ha dimostrato Fellini ne La Dolce Vita, c’era un verme nella mela. Il verme dei soldi, portati da ricchi speculator­i che non desiderava­no altro che gli artisti non guardasser­o alla società, ma pensassero solo al denaro, alla fama, e a trasformar­e il nostro lavoro in merce. Così successo che alcuni artisti hanno ceduto di fronte alla debolezza di veder realizzato un facile desiderio di lusso e fama. Per questo, nel 1964, l’avanguardi­a poteva considerar­si finita e per molti di noi Warhol è stato l’epitome di questo cambiament­o. Una persona molto attenta a ciò che gli accadeva intorno, ma la vera arte non può mai essere fatta a tavolino. E i soldi restano solo soldi».

Luca Monteraste­lli — «Non mi interessan­o le quotazioni, voglio pensare solo a studiare e al mio lavoro».

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