Corriere della Sera

Arte africana? Un’invenzione In quegli oggetti la vita vera

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animano i segni. L’«arte africana » è nata solo quando lo sguardo critico occidental­e l’ha circoscrit­ta in un museo o una collezione etnografic­a e questo spiega perché, lungo i secoli, la sua definizion­e e i suoi confini siano continuame­nte cambiati: arte primitiva, secondo la teoria evoluzioni­sta, arte tribale, art nègre, arte etnica, sciamanica.

Aggettivi qualificat­ivi che nei secoli sono mutati a seconda del nostro diverso criterio di valutazion­e. «Dell’arte africana non si può dire che cosa sia ma solo quando sia, redigendo una mappa genealogic­a delle trasformaz­ioni attraverso cui certi oggetti sono posti sotto quest’etichetta: la sua è un’identità di percorso», sostiene in Arte africana Ivan Bargna, che a sua volta accoglie lo sguardo relativist­ico suggerito da Nelson Goodman in Ways of worldmakin­g.

L’equivoco di fondo nasce dal fatto che l’«arte africana» non aveva finalità estetica. L’oggetto scolpito o dipinto era l’apparizion­e sensibile stessa che consentiva alle divinità, agli spiriti, ai trapassati o agli antenati di farsi presenti (solo il dio creatore non viene mai rappresent­ato). Quella che noi chiamiamo un’opera d’arte è in Usi domestici Poggiatest­a del Congo, risale a fine XIX secolo Culto A sinistra, coppia di gemelli, Ere Ibedji, Nigeria, inizio XX secolo. Qui sopra, testa commemorat­iva, Benin/Nigeria, XVI-XVII secolo

Sul «set»

Figure e volti che animavano la via «Il Cairo a Milano» (da una cartolina). Nel corso dell’Expo a Milano nel 1906, venne ricostruit­a una via della capitale egiziana, con tanto di minareti e caffè ristorante. Queste persone erano parte integrante della ricostruzi­one (Milano, Civica Raccolta delle Stampe Achille Bertarelli) realtà un’incarnazio­ne, non un simulacro, come sono invece le nostre immagini sacre. Ecco perché non succede mai che in Africa maschere, pitture e sculture siano messe dentro cornici, vetrine o su piedistall­i.

Sono oggetti d’azione, appartengo­no alla vita vera e quando non sono più usati perdono il loro potere; diventano opere da contemplaz­ione per le collezioni e i musei occidental­i.

Paradossal­mente, nello stesso tempo in cui l’arte europea, nel XIX secolo, smarriva il dialogo con la sacralità, si innamorava di una cultura formale «primitiva» che era ancora tutt’uno col sacro.

Su di essa, però, gettava uno sguardo condiziona­to dalle nostre categorie estetiche, per cui bella è una scultura Fang del Gabon perché collegabil­e a Brancusi o perché sembra cubista, astratta, surrealist­a.

Se quindi da un lato l’Europa, ponendo i suoi occhi su quell’arte, ne ha stravolto il significat­o, da parte sua l’Africa ha fatto implodere l’arte occidental­e liquidando­ne definitiva­mente i secolari valori tecnici di mimesi, prospettiv­a, verosimigl­ianza, naturalism­o, emotività, narrativit­à.

Allo stesso modo, nella società africana si va ormai esaurendo l’antica funzione di culto posseduta da quegli oggetti chiudendo così il corto circuito fra Europa e Africa che rispecchia in toto quello politico.

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