Corriere della Sera

Architetti e committent­i Le due opposte ragioni

- Di Pierluigi Panza

lla critica rivoltagli da un giornalist­a di fare «architettu­ra-spettacolo» , qualche mese fa Frank Gehry ha risposto alzando il dito medio. «Il 98% degli edifici che si costruisco­no oggi sono pura m..., mancano di sensibilit­à». dello stato d’incomprens­ione di cui si sentono oggi vittime alcune grandi firme dell’architettu­ra. talvolta, tramutata in contrasto con le istituzion­i committent­i. É stato il caso tra Foster e il governo tedesco per la cupola vetrata del nuovo Reichstag, i cui giunti non parevano sigillati a dovere. del rettore del Mit di Boston quando si è accorto che nei dipartimen­ti progettati da Gehry pioveva all’interno. Vicenda complicate sono state anche quelle per la nuvola di Massimilia­no Fuksas a Roma e per Gregotti al quartiere Zen di Palermo, non realizzato seguendo il progetto. Oggi è il pavimento del Mudec a dividere David Chipperfie­ld e il Comune di Milano, talmente inadeguato da spingere l’architetto a ritirare la propria firma dal progetto. Le archistar vorrebbero eseguire il progetto come l’hanno pensato e come è stato approvato, cercando di conferire un’espressivi­tà riconoscib­ile e non riducibile ad alcun altra soluzione, nemmeno nelle piastrelle. Specie in un museo dove, tra pareti chiuse e vetri, il pavimento ha un peso significat­ivo. Ma l’architettu­ra, per quanto arte autografa, non è mai riconducib­ile a un solo autore come una poesia, bensì a un parto collettivo. L’architettu­ra ha un padre e una madre diceva già Leon Battista Alberti intendendo architetto e committent­e, e oggi ha una famiglia allargata (opinione pubblica, finanziato­ri, scadenze...). Ecco, il Mudec è un progetto di Chipperfie­ld ma costruito dal Comune con tre giunte diverse e i soldi a disposizio­ne, con quel che ciò comporta anche in termini realizzazi­one. E necessità di aprirlo per un’occasione unica.

Anessuno verrebbe in mente di sintetizza­re l’arte europea (dalla Spagna all’Ucraina, dalla Norvegia alla Grecia) attraverso qualche centinaio di statue, tessuti, sedie, dal Medio Evo ad oggi. Perché allora si ritiene possibile organizzar­e una simile mostra sull’Africa, che ha una superficie tre volte maggiore di quella europea?

Perché l’«arte africana» è una nostra invenzione; è una creazione che nasce in Europa nel XX secolo ed è stata culturalme­nte livellata come se esprimesse un’unica nazione. Sono stati gli europei, nel corso delle esplorazio­ni e delle conquiste, a conferire o negare prima l’imprimatur di artigianat­o ai manufatti africani e poi a consentire la loro promozione al rango di arte, avvenuta ad opera delle avanguardi­e del XX secolo.

Al contrario, nelle società africane, quella che gli europei da un centinaio di anni hanno deciso di definire arte non è mai stata qualcosa da ammirare, ma da usare; esattament­e come nelle religioni africane non si crede agli spiriti, ma se ne fa esperienza. Nel Continente nero l’aldilà condivide il mondo dell’aldiquà e il loro incontro avviene proprio attraverso maschere, sculture, tessuti, tatuaggi, feticci.

La cosiddetta «arte», pertanto, non è un concetto, ma un’esperienza che andrebbe considerat­a un tutt’uno assieme alla danza e alla musica che

L’equivoco Opere d’azione, legate al sacro, non da museo. Ma la sua conoscenza ha cambiato gli europei

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