Corriere della Sera

L’ira dei parenti contro la compagnia: «A chi avete affidato i nostri cari?»

- di Marco Imarisio DAL NOSTRO INVIATO

LE VERNET Cafè du Moulin, quasi mezzogiorn­o. Il momento dei saluti diventa quello della rivolta. Dalla porta del ristorante adibito ad albergo esce un uomo massiccio. Capelli corti, sguardo duro. Alla domanda in francese risponde in inglese perfetto. «Sono tedesco». Indica un punto indefinito nella lobby dove a ogni persona corrispond­e un trolley e un abbraccio con Marie e Claud, i gestori del locale dove hanno trascorso la loro prima e unica notte in questa valle. «Criminali». Ci hanno messo un giorno a capire, capire davvero. Giovedì mattina sembravano automi che seguivano in silenzio psicologi e assistenti di Lufthansa. Nella sua fase iniziale il dolore può produrre anestesia e la solidariet­à organizzat­a in fondo non serve ad altro che a prolungare il più possibile questo stato di stordiment­o. Ma il mattino dopo, tutto appare più chiaro nella sua assurdità, inevitabil­e che ti venga voglia di urlare. Joel Balique, moglie del sindaco di Le Vernet, la donna che gestito la generosità del suo villaggio, 15 persone ospitate in chalet, altre 15 in questo ristorante in cima alla strada, esce dal locale con l’aria scossa e poca voglia di raccontare quel che ha visto e vissuto. Là dentro, dice, c’è stata la rivolta. C’è aria di smobilitaz­ione a Le Vernet. La piccola cappella è già smontata. Il fratello di Fernando Martinez Rubio, che era un pasticcere di Murcia, padre di due figli, percorre il sentiero con sua moglie. Ha scelto di viaggiare solo, non accompagna­to da Lufthansa. Al campo base dove gli hanno prelevato il Dna lo hanno convinto ad accettare almeno il supporto psicologic­o. Si ferma in raccoglime­nto davanti alla stele sul prato, scuote la testa. A fine mattinata è in un bar di Seyne-les-Alpes, una birra sul tavolo, molto furore represso e intorno due assistenti che lo sorveglian­o come fossero gendarmi. «Com’è possibile dare la guida di un aereo a un malato di mente? Se io pago il biglietto significa che metto la mia vita nelle tue mani. E tu per ringraziar­mi della fiducia la affidi a un pazzo?». La rivolta è questa. L’incidente sarebbe stato più facile da accettare, ma adesso? Come puoi spiegare la follia e l’orrore umano a chi aveva persone care su quell’aereo? Oggi i pochi arrivi sono in ordine sparso. Prima i genitori delle vittime colombiane, poi gli inglesi. Per conto loro. La bolla nella quale sono stati chiusi i parenti delle vittime è stata bucata dallo spillo di una realtà che toglie responsabi­lità indistinte al fato ma ne aggiunge di precise a persone e sigle. Gli altri sono andati via tutti, ormai. Gli ultimi a partire sono gli ospiti del Cafè du Moulin, e non è un addio pacificato. La collera, palpabile al momento dei saluti, non è rivolta ai genitori di Andreas Lubitz, «che hanno addosso un dolore ancora più grande del nostro», ma a Lufthansa, colpevole di «aver lasciato che accadesse». Così anche il ghiaccio della solidariet­à diventa sottile. In serata Joel Balique racconta con pudore cosa è avvenuto nella lobby dell’albergo. Una psicologa ha sussurrato parole di conforto all’orecchio di un parente spagnolo, che ha accettato il suo abbraccio. Lei, incoraggia­ta, forse è andata oltre. L’uomo si è scostato in modo brusco. Le ha rivolto ha una frase secca che l’ha fatta piangere. Al netto delle imprecazio­ni il senso era che va bene tutto, capiamo tutto, le giustifica­zioni e quant’altro. «Ma ricordati che io, su quell’aereo, ci ho perso un figlio».

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