Corriere della Sera

Un contributo non negoziabil­e che dovrebbe andare ai genitori o agli studenti aventi diritto: è la proposta in grado di coniugare libertà di scelta, giustizia sociale ed efficienza. Gli sgravi fiscali suggeriti dal governo sono poco più di un’elemosina

- Di Dario Antiseri

perfeziona­rsi, senza tregua, se non vuol essere vinta e sopraffatt­a». Ed ecco, una decina di anni più tardi, Antonio Gramsci: «Noi socialisti dobbiamo essere propugnato­ri della scuola libera, della scuola lasciata all’iniziativa privata e ai Comuni. La libertà nella scuola è possibile solo se la scuola è indipenden­te dal controllo dello Stato». Un’idea, questa di libertà di scuola, che, prima di Salvemini e di Gramsci e in contesti differenti, era stata difesa, tra altri, da Alexis de Tocquevill­e, Antonio Rosmini e John Stuart Mill e, dopo di loro e ancora tra altri, da Bertrand Russell, Luigi Einaudi, Karl Popper, don Luigi Sturzo e don Lorenzo Milani.

Ma è chiaro che, senza parità economica, la parità giuridica tra scuole statali e scuole non statali è soltanto un ulteriore inganno carico di nefaste conseguenz­e. E qui va detto che, tra le diverse proposte per l’introduzio­ne di una effettiva competizio­ne all’interno del sistema formativo, la migliore è sicurament­e quella del «buono scuola» — idea avanzata da Milton Friedman e ripresa successiva­mente da Hayek, e sulla quale da noi insiste e non da oggi Antonio Martino.

Con il «buono scuola» i fondi statali sotto forma di «buoni» non negoziabil­i ( voucher) andrebbero non alla scuola ma ai genitori o comunque agli studenti aventi diritto, i quali sarebbero liberi di scegliere la scuola presso cui spendere il loro «buono». In tal modo, pressata dall’interesse di non vedere gli iscritti scappare da essa, ogni scuola sarebbe spinta a migliorars­i, e sotto tutti gli aspetti.

Quella del «buono scuola» è, insomma, una proposta in grado di coniugare libertà di scelta, giustizia sociale ed efficienza della scuola. E sembrava, dai vari annunci dei mesi passati, che il governo Renzi, con il principio di detrazione fiscale per le rette delle scuole paritarie, si avvicinass­e alla proposta del «buono scuola». Sennonché, «dal gran banchetto di parole» è uscita fuori una solenne presa in giro: l’importo della detrazione proposto dal governo non è altro che un’elemosina.

E qua giunti, qualche domanda al presidente Renzi. Uno Stato che costringe suoi cittadini a pagare per comprare pezzi di libertà è davvero uno Stato di diritto? Aveva torto Luigi Einaudi a sostenere che il danno creato dal monopolio statale dell’istruzione «non è dissimile dal danno recato da ogni altra specie di monopolio?». E poi Salvemini: «Lo Stato ha il dovere di educare bene i miei figli, se io voglio servirmi delle sue scuole. Non ha il diritto di impormi le sue scuole anche se in esse i miei figli venissero educati male». Cosa c’è che non va in questa consideraz­ione di Salvemini? Come può il presidente di un governo che si dice di sinistra non vedere — come, invece, anni addietro fece presente un noto rappresent­ante del Partito comunista — che il «buono scuola è una carta di liberazion­e per le famiglie meno abbienti? Avere un buon naso per fiutare i problemi e poi sbagliare via via le soluzioni significa sì andare avanti, ma andare avanti sulla cattiva strada.

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