Quell’insostenibile ruolo di
Un film indaga sulla famiglia, affrontando molti dei nostri tabù Le madri cattive, per esempio. E dimostrando come il «pacchetto ideale» esista solo nella nostra fantasia
Una bella casa borghese, un uomo e una donna addormentati accanto al loro bambino di pochi mesi. Un’immagine di rara armonia, l’emblema della felicità. Forse. Perché quell’immagine può raccontare tutta un’altra storia. Ne è convinta Susanne Bier, classe 1960, premio Oscar nel 2011 con In un mondo migliore. Da quell’immagine e da un’altra, speculare — un interno degradato, un uomo e una donna che dormono accanto a un neonato sporco fino all’inverosimile — è partita per il suo ultimo film, Second chance, nelle sale dal 2 aprile. «Un thriller sui valori morali che parte dalla domanda: fino a dove siamo pronti a spingerci in nome di questi valori?», racconta la regista danese. Un’opera «sulla maternità e anche sulla paternità, sulla nostra idea e i nostri pregiudizi intorno al concetto di famiglia». Come quelli che scattano istintivamente vedendo le due coppie al centro della storia, quella borghese e quella borderline. «Pensi già di conoscere tutto, di poter stabilire a priori chi sia adatto e chi no ad essere genitore».
Ma l’apparenza, dicono Bier e il suo sceneggiatore Anders Thomas Jensen, inganna. «Niente è come appare, mi piace sottolineare la differenza tra ciò che è e ciò che vogliamo credere». Qui non è difficile credere al protagonista, Andreas, poliziotto e padre modello (Nikolaj Coster-Waldau, il fascinoso Jaime Lannister di Trono di spade). Un uomo perbene, che ha a cuore i destini della comunità e anche quelli del suo collega di lavoro che si è ritrovato la famiglia a pezzi. Padre attento, pronto a fare il turno con la moglie nel cambio dei pannolini e nelle ninne nanne. Un uomo certo di saper riconoscere e sconfiggere il male. Non riveliamo la trama, basta dire che l’incontro casuale, per un controllo di routine nella casa dello spacciatore, con il bambino della coppia di tossici innesca un meccanismo che porterà Andreas verso una strada di non ritorno. In cui lo seguiamo, con disagio crescente, anche noi spettatori. Occasione per riflettere su un tema, la famiglia, di grande attualità. «Fare film carini non mi interessa, mi interessa mostrare com’è la vita. Dove può succedere che una scelta moralmente sbagliata possa rivelarsi giusta. O il contrario». Come dire, si fa presto a dire famiglia felice, a dare ricette più o meno legate a una visione ideologica. Poi, nella realtà, le cose sono molte diverse. « La famiglia perfetta, quella dei pranzi della domenica o dei cenoni di Natale, è un mito. Anzi, quelli sono spesso i momenti in cui si scatenano rotture e conflitti». Il problema, dice Bier, madre di due figli, nasce dal doversi misurare con immagini ideali, «con un obbligo di perfezione irraggiungibile».
Obbligo di perfezione e di felicità che per alcune donne risulta insostenibile. Second chance affronta anche il tabù della madre cattiva. «La maternità è qualcosa di più complesso di come ce la raccontiamo. L‘obbligo di essere una madre perfetta è la cosa più spaventosa del mondo». I padri possono cavarsela meglio, dice: «La paternità è tema poco descritto al cinema. Nella mia esperienza ho visto tanti padri che vivono il rapporto con i figli anche piccolissimi con molta naturalezza. Forse perché hanno meno aspettative e modelli».
La famiglia, dice Bier, può essere tante cose. «Ho seguito lo scontro tra Dolce e Gabbana e Elton John. Penso che una coppia gay possa allevare un figlio in modo altrettanto armonioso e amorevole di una etero, in cui comunque può mancare qualcosa. L’intero pacchetto esiste solo nella nostra fantasia. Per i figli ciò che conta è l’equilibrio tra gli obblighi morali che ci poniamo e l’amore infinito che riusciamo a dare».
Valigia in mano per lavoro o studio. Destinazione: una nuova metropoli o un Paese estero. E gli amici? Quelli si cercano in loco. E non sono per forza colleghi o compagni di accademia. La possibilità di formare nuove conoscenze lontano da casa è assicurata da InterNations, una community con «basi» in 390 città del mondo e impegnata a organizzare eventi di socializzazione e incontro. Il numero di iscritti supera il milione e mezzo. Quasi tutti laureati. Manager, specializzandi, professionisti e persino diplomatici. In Italia la comunità ha messo radici a Milano, Roma, Firenze, Napoli, Padova, Parma, Bologna, Genova, Torino e Venezia. E così, gli stranieri che arrivano nel Belpaese (come gli italiani che traslocano oltreconfine) possono agganciarsi al gruppo del posto e partecipare alle serate friendly (250 partecipanti in media) per integrarsi e interagire. Skill necessario: parlare inglese. A Milano la community conta 10 mila iscritti, di cui il 70% è composto da stranieri. Mentre Roma viaggia sui 12 mila membri, con un aumento di circa 700 newentry ogni 3 mesi. Per accedere basta presentare domanda online, ma l’ammissione è decisa soltanto dal quartier generale in Germania. «InterNations è nata nel 2007 da un’idea di Malte Zeeck, un ex giornalista freelance tedesco, che al tempo ha avviato il progetto con l’obiettivo di incontrare nuovi amici durante le sue trasferte. Poi, la community da locale è diventata globale» spiega Michela Bovolenta (ambassador), alla guida dell’organizzazione milanese, insieme a Lianne Heijl. Si entra con il titolo «basic», ossia gratis, o «albatros» pagando una piccola fee che assicura sconti fino al 50% per l’ingresso agli eventi. «Cerchiamo di allungare le serate il più possibile — precisa Bovolenta —. In genere, si parte con un aperitivo e poi si balla». Ogni gruppo principale ha i suoi sottogruppi divisi per interessi e dedicati a promuovere iniziative specifiche: passeggiate in bici, giornate sugli sci, yoga, libri, musica, fotografia, weekend fuori porta, vacanze. «C’è anche il gruppo per il biliardo della domenica», commenta Bovolenta. Non manca nulla.