La giostra della giustizia per un delitto senza castigo
L’assoluzione di Amanda e Raffaele La vicenda giudiziaria conclusasi venerdì lascia sconcertati: perché si è consumata con troppa lentezza; perché ci sono vittima e reato, ma non il reo; per l’estenuante ping pong di tanti verdetti contrastanti
Il processo sull’omicidio di Meredith Kercher, con il suo esito finale raggiunto venerdì, lascia frustrati. Perché la vicenda giudiziaria s’è svolta a passo di lumaca; perché ci sono vittima e reato, ma l’unico condannato — Rudy Guede — lo è stato per omicidio «in concorso» non si sa con chi; per i molti verdetti contrastanti. In questa sconfitta della giustizia risiede però anche la sua vittoria.
Per trovare la giustizia bisogna esserle fedeli, diceva Calamandrei: come tutte le divinità, si manifesta soltanto a chi ci crede. Dopo l’ultima vicenda giudiziaria, difficilmente questa Dea guadagnerà nuovi proseliti. Perché il processo sull’omicidio di Meredith Kercher sconcerta anzitutto per i numeri, capricciosi come quelli del lotto. Quasi 8 anni per risolverlo, 5 giudizi, 2 sentenze opposte delle Corti d’assise di Perugia e di Firenze, 3 interventi della Cassazione. Appelli e contrappelli, mentre intanto quel processo diventava un caso internazionale, con americani e inglesi a fare il tifo gli uni contro gli altri. E mentre s’accendeva l’attenzione pubblica, con 2 film, 9 libri, migliaia di resoconti sui giornali. Quattro anni trascorsi in una cella per Amanda Knox e Raffaele Sollecito, i presunti colpevoli. Infine la loro assoluzione: delitto senza castigo. O meglio con un mezzo castigo, giacché nel frattempo era stato condannato in via definitiva Rudy Guede, per «concorso in omicidio». Ma con chi concorreva il concorrente? Vattelappesca.
Da qui la frustrazione che ci lascia in corpo la vicenda. Perché intanto si è consumata a passo di lumaca; e la giustizia tardiva è sempre una giustizia negata, come recita una massima della Corte suprema statunitense. Perché in secondo luogo c’è la vittima, c’è il reato, ma non c’è invece il reo. Perché in terzo luogo i giudici ci hanno somministrato un ping pong di verdetti contrastanti, e chissà se ne hanno scritto almeno uno veritiero. Eppure in questa sconfitta della giustizia risiede altresì la sua vittoria. Il vero e il falso, ahimè, albergano in un nido d’ombra. E la verità giudiziaria non è meno opinabile della verità storica, filosofica, scientifica. Ecco perché ogni sentenza può venire ribaltata dalla sentenza successiva: per controllarne prove ed argomenti, per ottenere, se non la verità, almeno una verifica. Ma quest’esame non può rimbalzare all’infinito, a scapito della certezza del diritto. L’ultima sentenza diventa perciò definitiva, giusta o sbagliata che sia. Ed è esattamente qui il bene giuridico e civile che ci ha offerto la Cassazione: ha scritto la parola fine a questa storia, o quantomeno alla storia di Amanda e Raffaele. Che poi siano davvero innocenti lo sapranno solo loro, insieme al Padreterno.
Noi, però, almeno una cosa la sappiamo. Sappiamo che in Italia il riesame giudiziario è come la tela di Penelope. Troppi appelli, troppi rimpalli da una Corte all’altra. È questo accanimento nella ricerca d’una verità impossibile che scuote la fiducia popolare in giudici che si contraddicono a vicenda, che allunga a dismisura i tempi delle loro decisioni, che brucia i processi con la prescrizione. Altrove non è affatto una regola scolpita sulla pietra. In Spagna, nel Regno Unito, in Germania, in Francia, l’appello viene consentito solo in casi circoscritti. Negli Usa ne hanno pieno diritto unicamente i condannati a morte. Laggiù, del resto, la Corte suprema riceve 80 casi l’anno; la nostra Cassazione ne assorbe 80 mila. Eppure l’antidoto verrebbe in mente anche a un bambino: se un tribunale ti dichiarerà innocente (come accadde nel 2011 per Amanda e Raffaele), nessun altro tribunale avrà più di che dichiarare. Fine della giostra.
La giostra da fermare La Corte suprema Usa riceve 80 casi l’anno; la Cassazione, in Italia, 80 mila. La soluzione? Nessun appello dopo un verdetto di non condanna