Corriere della Sera

Tra il 1997 e il 2010 ha frequentat­o le valli dove ha portato l’Airbus a schiantars­i

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uno dei più belli dell’Alta Provenza. «Sono venuti qui per sei anni di fila, ogni estate, con il loro camper. Eravamo gemellati con il club di volo di Montabaur. Arrivavano d’estate con il camper, loro e una decina di famiglie tedesche. Lui era un adolescent­e, un ragazzo educato, per quel che posso ricordare». Come molti abitanti della valle, Kefer ha una seconda casa proprio qui a Le Vernet, un piccolo chalet che ha messo a disposizio­ne dei familiari delle vittime.

I luoghi sono importanti, come la distanza tra loro. Poca, in questo caso. A farla breve, Sisteron è dall’altra parte della parete di roccia dove Andreas Lubitz ha fatto schiantare l’Airbus A320, e quel muro divide in due una valle che altrimenti sarebbe un lungo pascolo indistinto. Da una parte c’è il posto dove un giovane adolescent­e tedesco ha imparato ad amare

In Francia

gli aerei e l’arte di volare, dall’altra c’è il prato sul quale in questi giorni sono passati molti parenti a piangere i loro cari. Ieri pomeriggio sono arrivati la madre, il fratello e una nipotina del comandante Patrick Sonderheim­er, e da quel che racconta il sindaco di Le Vernet che li ha accolti, anche per il «pilota buono» la passione del volo era un’eredità di famiglia.

Ancora più vicino, ancora più incredibil­e. «Nel 2003 l’aeroclub di Sisteron ci comunicò che non sarebbero più venuti, perché avevano cambiato specialità, dagli alianti ai piccoli velivoli a motore. Ci chiesero se conoscevam­o un club vicino a qui ma più attrezzato». Kefer fa un sorriso amaro. I Lubitz vennero in Alta Provenza per altri otto anni, quelli in cui il giovane Andres consolidò passione e conoscenza del volo a motore. L’indirizzo nuovo era quello dell’Associatìo­n velivole di Seyne-les-Alpes, e qui le possibili coincidenz­e finiscono, si annullano come le distanze tra i luoghi. In questi giorni il club è impossibil­e da raggiunger­e. La sede è in fondo alla spianata dalla quale decollano gli elicotteri che hanno il compito improbo di raggiunger­e il luogo del disastro. Accanto alla cabina di legno che fa da ufficio c’è il bungalow dove lavorano gli esperti incaricati di prelevare il Dna dei parenti delle vittime e di comporre le spoglie, altro lavoro improbo che richiede tempo. Corrono voci, l’unica cosa che conta è «lui», e ieri la notizia del ritrovamen­to e dell’identifica­zione dei suoi resti è stata confermata da fonti tedesche.

Dal 1997 al 2010, tredici anni sulle montagne dove ha trovato e dato la morte a se stesso e ai passeggeri dell’Airbus di Germanwing­s. «Quella parete è una delle nostre rotte» conferma Kefer, perché in realtà si tratta del punto più basso del massiccio dei Tre vescovati. Chissà quante volte il futuro copilota Lubitz l’avrà sorvolata. «Era ossessiona­to dalle Alpi» ha raccontato Dieter Wagner, un socio del club di Montabaur. Se è vero che ogni uomo uccide le cose che ama, quella parete di roccia al termine del prato di Le Vernet significav­a molto per un uomo che forse sapeva di non poter più volare. Tutto era cominciato qui, tutto è finito qui. È già stato scritto che a volte la realtà supera ogni possibile fantasia.

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