Corriere della Sera

Trattativa Stato-mafia, la verità di Mannino

L’ex ministro al processo: «Vengo accusato sulla base di ritagli di altre inchieste Il capo della Polizia mi disse che dopo il delitto Lima io e Mattarella eravamo a rischio»

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lucido nonostante i molti incisi, e non perde mai il filo mentre ripercorre trent’anni di vicende politiche mescolate a minacce, intrighi, attentati, omicidi, polemiche e processi; Mannino è già stato processato e assolto in via definitiva (dopo una condanna intermedia in appello) dal reato di concorso in associazio­ne mafiosa, per il quale scontò due anni di carcerazio­ne preventiva. Pubblico ministero era Vittorio Teresi, che oggi siede ancora sul banco dell’accusa al fianco dell’altro pm Roberto Tartaglia, che quando Mannino fu inquisito la prima volta andava alle elementari.

Molti degli episodi contenuti nei precedenti processi sono stati riletti dalla Procura a sostegno delle minacce collegate alla cosiddetta trattativa; avviata proprio da Mannino, secondo i pm, dopo l’omicidio Lima (marzo 1992), per salvarsi la vita. Accanto a lui c’è l’avvocato Carlo Federico Grosso, piemontese, uomo di sinistra, già vicepresid­ente del Csm, che difende l’ex ministro dc insieme a Grazia Volo. I due legali ritengono che non ci siano prove per condannare il loro assistito, e che il reato contestato oggi sia incostituz­ionale per l’irrazional­ità di una sanzione più grave rispetto a quella prevista per atti violenti. Chiederann­o dunque di mandare tutto davanti alla Consulta, ma nel frattempo Mannino difende se stesso e la storia della Dc siciliana. In particolar­e quella della sinistra interna al partito «che non era un gruppo militare, bensì un’area politico-culturale di cui hanno fatto parte uomini molto degni come Martinazzo­li e l’attuale presidente della Repubblica Mattarella».

L’ex collega cita più volte il

L’indagine

Il processo Stato-mafia riguarda una presunta negoziazio­ne tra istituzion­i e Cosa nostra per attenuare la detenzione dei boss condannati al carcere duro

Imputati tra gli altri i vertici di Cosa nostra, Ciancimino jr., i generali dei Ros Mori e Subranni, Marcello Dell’Utri e (per falsa testimonia­nza) l’ex ministro Nicola Mancino. Il processo è in corso a Palermo capo dello Stato, e ricorda che «il capo della polizia Parisi, dopo l’omicidio Lima, mi disse che c’erano rischi per me e Mattarella, e sono contento che poi lui sia uscito da questi rischi». Per Mannino invece continuaro­no, «ma la fonte erano i servizi segreti e dovremmo riflettere bene sul loro ruolo in quel periodo di storia», ammonisce l’ex ministro. Senza però chiarire ciò che intende.

In sintesi Mannino nega ogni circostanz­a squadernat­a dai pm a suo carico, dalla richiesta di aiuto ai carabinier­i (oggi suoi coimputati) alle trame per salvare se stesso (rafforzand­o così il ricatto di Cosa nostra, secondo l’accusa). Si definisce «vittima delle minacce e dell’intrigo», e rivendica cordialità e identità di vedute con i magistrati Falcone e Borsellino. Di quest’ultimo rivela una telefonata tre giorni prima della strage che lo uccise; voleva incontrarl­o e gli disse che l’anonimo con accuse nei suoi confronti era «una porcheria». Questo sostiene Mannino, e Borsellino non può confermare. Al contrario, per i pm il magistrato voleva indagare su quella nuova lettera del Corvo, mentre furono i carabinier­i oggi alla sbarra con l’ex ministro a negare ogni accertamen­to.

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