Corriere della Sera

Livorno, Cremona e La Spezia: qui l’integrazio­ne è più difficile Male anche l’Emilia Romagna «Di fronte ai migranti è chiusa»

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sono da rivedere, forse, ammoniscon­o i sociologi cui chiediamo di commentare la ricerca.

«Il dato struttural­e dell’Irpef ovviamente pesa molto, col suo delta tra nord e sud, tremila a Bologna, mille e rotti a Reggio Calabria » , premette Mario Abis, partner di Renzo Piano nel gruppo G124 inventato dal grande architetto per «rammendare» le periferie italiane: «Ma c’è un secondo dato di rilievo. Fino a tutti gli anni Ottanta venivano dall’estero a studiare l’Emilia Romagna, rossa e aperta. Ora scopriamo che lì c’è il conflitto. L’abitudine all’integrazio­ne sociale è tutta interna. Di fronte alla pressione esterna dell’immigrazio­ne, questo mondo diventa chiuso e conservato­re. Il terzo dato è che le città più “smart”, come Trento e Trieste, hanno molta precarietà sociale».

Città «smart», intelligen­ti, sarebbero quelle capaci di sguardo lungo sul futuro, di miscele felici tra ambiente, tecnologie, servizi e governo locale: un altro paradosso, dunque. «Queste città sono molto “densificat­e” — spiega Abis — molto legate alla cultura d’appartenen­za. Entrano in difficoltà di fronte ai flussi esterni. Nelle aree metropolit­ane il fenomeno sfuma un po’, c’è un cosmopolit­ismo di necessità e, spesso, un’immigrazio­ne già di seconda o terza generazion­e, già in parte assorbita: questo spiega perché Milano, con i suoi cinesi e filippini, sia in una posizione intermedia nella classifica».

«Significat­ivo, e confortant­e, è che c’è più integrazio­ne dove più alta è la percentual­e delle donne», dice il sociologo Domenico De Masi: «L’elemento ovvio è che l’immigrato al Sud si integra non perché sta meglio ma perché i meridional­i stanno peggio, è povero fra i poveri. In un’economia marginale lo sfruttamen­to diventa poi la sua integrazio­ne, come a Castel Volturno, dove gli stranieri sono trattati come schiavi nelle piantagion­i razziste». Al centro colpisce Rieti, «l’ombelico d’Italia», cinquantam­ila anime nel cuore della paciosa Sabina, eppure al quarto posto nella classifica di precarietà sociale a causa degli alti tassi di disoccupaz­ione degli stranieri (16 per cento contro il 13,9 nazionale) e della loro forte incidenza sul numero dei detenuti (67,2 contro il 32,6 di media

Paese sottosopra Il rischio che si creino ghetti di povertà è più alto a Bologna che a Reggio Calabria

nazionale). «La ricerca è fatta bene e prende anche le “isole” — sostiene De Masi — nessuna microarea può dirsi immune. Il paradosso è che le zone più rischiose sono spesso quelle più civiche. L’egoismo nazionale taglia le spese sui migranti, decurtate anche dai vari Buzzi, perché abbiamo visto a Roma che quei pochi soldi spesso vengono rubati. Già si sapeva che i ricchi sono più escludenti dei poveri. Ci illudevamo che, essendoci formati su matrici cristiane e marxiste, fossimo più accoglient­i: ma spesso è l’opposto».

Abis ci sta lavorando su. Collabora col governo a una delibera-cornice per i piani strategici delle nostre dodici città metropolit­ane (a Londra esiste da tempo un piano che guarda fino al 2065, noi fatichiamo a immaginare il futuro): « Se questa precarietà sociale non la inseriamo nei modelli strategici, la vediamo solo quando c’è già. Noi dobbiamo prevedere, prevenire». Come? «La risposta sta nell’ultima colonna della ricerca: con la spesa», sbotta De Masi. « Scuola, educazione, spesa pubblica per l’integrazio­ne», dice Abis. Spesa pubblica di questi tempi è una parolaccia. Ma in ballo ci sono fondi europei, a saperseli guadagnare. E c’è l’onore d’Italia. Perché italiani come Cioma non debbano vergognars­i della loro patria.

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