MENO LIMITI AGLI AZIONISTI PIÙ CAPITALI PER LE IMPRESE ITALIANE
Strategie Per aiutare le aziende di fronte alla globalizzazione finanziaria va reso più semplice l’ingresso di nuovi soci: in questo modo si avvicinerebbe il mercato a quello del mondo anglosassone
Le cessioni di imprese italiane a investitori industriali stranieri indeboliscono il nostro sistema, indipendentemente dalla brillantezza finanziaria e contrattuale di operazioni come Bulgari, Ducati, Ansaldo, Pirelli e altre in passato, domani magari Pininfarina.
Le ragioni — è noto, anche se alcuni si sforzano di non vederlo — risiedono nella superficialità con cui il Paese ha affrontato la globalizzazione della finanza, della tecnologia e dei processi produttivi. E per le imprese, al di là delle apparenze, si sono creati più rischi che vantaggi. Ciò che oggi scarseggia più di tutto è il capitale, senza il quale non si ottengono prestiti e non si fanno investimenti, sprecando i benefici del Quantitative easing — l’acquisto, da parte della Banca centrale europea, di titoli di Paesi membri — e dei bassi tassi d’interesse.
La vendita, si dice, è il prezzo da pagare per lo sviluppo delle aziende in un mercato, il nostro, povero di risorse finanziarie. Falso. La ricchezza liquida degli italiani è enorme (quasi quattromila miliardi di euro) e da quando i movimenti di capitale sono liberi è venuta meno la distinzione tra risparmio nazionale ed estero.
Molti — anche chi ha qualche interesse al riguardo — giurano che le aziende cedute resteranno italiane, grazie a localizzazione e management nazionali: la provenienza dell’acquirente conta poco o nulla, anzi più capitali esteri entrano meglio è. Ma non è del tutto vero. Dipende dalla natura di questi capitali. È così per le public company — società possedute da investitori istituzionali e risparmiatori privati — dove un gestore sovrano governa l’ordinario e lo straordinario nell’interesse di azionisti cui importa solamente il ritorno finanziario. Diverso è se l’acquirente è industriale e straniero: le scelte strategiche verranno fatte da una casa madre estera e il management italiano potrà solamente adeguarsi.
Le nostre imprese hanno dunque il problema di non restare schiacciate dalla globalizzazione finanziaria. Le si potrebbe aiutare, stimolando l’ampliamento della proprietà di quelle trattate in Borsa e spingendo gli imprenditori ad investire nelle loro aziende.
Molte società quotate sono governate o da famiglie senza illimitate disponibilità o da sistemi dove, grazie al meccanismo della leva societaria, gli azionisti minimizzano le risorse necessarie al controllo. E da quest’ultimo estraggono consistenti benefici privati, non estendibili all’intero azionariato. Tra essi vi è la possibilità di impedire o consentire il rafforzamento patrimoniale delle imprese in base alla propria convenienza, che non necessariamente coincide con quella delle aziende controllate. Lo strumento si chiama diritto d’opzione sugli aumenti di capitale, ovvero la possibilità di limitare l’ingresso di nuovi soci portatori di finanza.
Non sarebbe difficile trasformare questa limitazione da obbligatoria a facoltativa: basterebbe modificare l’articolo 2441 del Codice civile e abolirne il comma 4 dove, in modo un po’ ipocrita, si lascia quel tanto di libertà che non disturba il manovratore, cioè il socio di controllo. La possibilità di ridefinire l’azionariato assesterebbe un colpo a quel «capitalismo di relazione» che il presidente del Consiglio dichiara di detestare, avvicinando imprese e mercato al mondo anglosassone, dove da vige da tempo la «libertà statutaria». La scelta da fare è chiara: meglio il controllo o il capitale? Con una piccola modifica normativa si farebbe epoca.
La riforma piacerebbe agli investitori. Il valore di Borsa delle società che avessero scelto di aprire l’azionariato crescerebbe e si rafforzerebbe il potere dei manager sulle operazioni patrimoniali. Al tempo stesso, il minor peso dei soci di controllo consentirebbe di pagare le acquisizioni con le proprie azioni, proprio come avviene oltreoceano dove le imprese si comprano tramite scambi di titoli. Cosi le aziende italiane diverrebbero più grandi e più solide.
Ma la crescita del patrimonio riguarda anche l’industria non quotata. «Cuore a sinistra, portafoglio a destra», definiva Emilio Lussu la nostra «borghesia illuminata»: gli imprenditori, al di là dei proclami, appaiono riluttanti ad impegnare nelle società la loro ampia ricchezza privata. Certo, non possiamo obbligarli ad investire: ma incentivarli sì. È noto che molti immobili usati dalle aziende — speriamo non quelle quotate! — appartengono ai proprietari di queste ultime, cui viene di solito pagato un affitto. Spingiamoli a capitalizzare le imprese conferendo loro questi immobili in cambio di azioni, riducendo per qualche anno Imu e Tasi e detassando le plusvalenze che dovessero emergere da queste operazioni. Le aziende sosterranno così i loro progetti industriali con finanziamenti a lungo termine più generosi e aumenteranno i profitti. Gli imprenditori rafforzeranno in modo trasparente e conveniente le imprese ed il controllo su di esse. Lo Stato farà emergere ricchezze non sempre evidenti e incasserà più imposte dai maggiori utili.
Qualcuno potrà mugugnare sulla scarsa ortodossia di queste iniziative. Ma uno statista, diceva De Gasperi, deve «guardare alle prossime generazioni». Ce le siamo già giocate abbastanza.