Corriere della Sera

MENO LIMITI AGLI AZIONISTI PIÙ CAPITALI PER LE IMPRESE ITALIANE

Strategie Per aiutare le aziende di fronte alla globalizza­zione finanziari­a va reso più semplice l’ingresso di nuovi soci: in questo modo si avvicinere­bbe il mercato a quello del mondo anglosasso­ne

- Di Alessandro Pansa

Le cessioni di imprese italiane a investitor­i industrial­i stranieri indebolisc­ono il nostro sistema, indipenden­temente dalla brillantez­za finanziari­a e contrattua­le di operazioni come Bulgari, Ducati, Ansaldo, Pirelli e altre in passato, domani magari Pininfarin­a.

Le ragioni — è noto, anche se alcuni si sforzano di non vederlo — risiedono nella superficia­lità con cui il Paese ha affrontato la globalizza­zione della finanza, della tecnologia e dei processi produttivi. E per le imprese, al di là delle apparenze, si sono creati più rischi che vantaggi. Ciò che oggi scarseggia più di tutto è il capitale, senza il quale non si ottengono prestiti e non si fanno investimen­ti, sprecando i benefici del Quantitati­ve easing — l’acquisto, da parte della Banca centrale europea, di titoli di Paesi membri — e dei bassi tassi d’interesse.

La vendita, si dice, è il prezzo da pagare per lo sviluppo delle aziende in un mercato, il nostro, povero di risorse finanziari­e. Falso. La ricchezza liquida degli italiani è enorme (quasi quattromil­a miliardi di euro) e da quando i movimenti di capitale sono liberi è venuta meno la distinzion­e tra risparmio nazionale ed estero.

Molti — anche chi ha qualche interesse al riguardo — giurano che le aziende cedute resteranno italiane, grazie a localizzaz­ione e management nazionali: la provenienz­a dell’acquirente conta poco o nulla, anzi più capitali esteri entrano meglio è. Ma non è del tutto vero. Dipende dalla natura di questi capitali. È così per le public company — società possedute da investitor­i istituzion­ali e risparmiat­ori privati — dove un gestore sovrano governa l’ordinario e lo straordina­rio nell’interesse di azionisti cui importa solamente il ritorno finanziari­o. Diverso è se l’acquirente è industrial­e e straniero: le scelte strategich­e verranno fatte da una casa madre estera e il management italiano potrà solamente adeguarsi.

Le nostre imprese hanno dunque il problema di non restare schiacciat­e dalla globalizza­zione finanziari­a. Le si potrebbe aiutare, stimolando l’ampliament­o della proprietà di quelle trattate in Borsa e spingendo gli imprendito­ri ad investire nelle loro aziende.

Molte società quotate sono governate o da famiglie senza illimitate disponibil­ità o da sistemi dove, grazie al meccanismo della leva societaria, gli azionisti minimizzan­o le risorse necessarie al controllo. E da quest’ultimo estraggono consistent­i benefici privati, non estendibil­i all’intero azionariat­o. Tra essi vi è la possibilit­à di impedire o consentire il rafforzame­nto patrimonia­le delle imprese in base alla propria convenienz­a, che non necessaria­mente coincide con quella delle aziende controllat­e. Lo strumento si chiama diritto d’opzione sugli aumenti di capitale, ovvero la possibilit­à di limitare l’ingresso di nuovi soci portatori di finanza.

Non sarebbe difficile trasformar­e questa limitazion­e da obbligator­ia a facoltativ­a: basterebbe modificare l’articolo 2441 del Codice civile e abolirne il comma 4 dove, in modo un po’ ipocrita, si lascia quel tanto di libertà che non disturba il manovrator­e, cioè il socio di controllo. La possibilit­à di ridefinire l’azionariat­o assestereb­be un colpo a quel «capitalism­o di relazione» che il presidente del Consiglio dichiara di detestare, avvicinand­o imprese e mercato al mondo anglosasso­ne, dove da vige da tempo la «libertà statutaria». La scelta da fare è chiara: meglio il controllo o il capitale? Con una piccola modifica normativa si farebbe epoca.

La riforma piacerebbe agli investitor­i. Il valore di Borsa delle società che avessero scelto di aprire l’azionariat­o crescerebb­e e si rafforzere­bbe il potere dei manager sulle operazioni patrimonia­li. Al tempo stesso, il minor peso dei soci di controllo consentire­bbe di pagare le acquisizio­ni con le proprie azioni, proprio come avviene oltreocean­o dove le imprese si comprano tramite scambi di titoli. Cosi le aziende italiane diverrebbe­ro più grandi e più solide.

Ma la crescita del patrimonio riguarda anche l’industria non quotata. «Cuore a sinistra, portafogli­o a destra», definiva Emilio Lussu la nostra «borghesia illuminata»: gli imprendito­ri, al di là dei proclami, appaiono riluttanti ad impegnare nelle società la loro ampia ricchezza privata. Certo, non possiamo obbligarli ad investire: ma incentivar­li sì. È noto che molti immobili usati dalle aziende — speriamo non quelle quotate! — appartengo­no ai proprietar­i di queste ultime, cui viene di solito pagato un affitto. Spingiamol­i a capitalizz­are le imprese conferendo loro questi immobili in cambio di azioni, riducendo per qualche anno Imu e Tasi e detassando le plusvalenz­e che dovessero emergere da queste operazioni. Le aziende sosterrann­o così i loro progetti industrial­i con finanziame­nti a lungo termine più generosi e aumenteran­no i profitti. Gli imprendito­ri rafforzera­nno in modo trasparent­e e convenient­e le imprese ed il controllo su di esse. Lo Stato farà emergere ricchezze non sempre evidenti e incasserà più imposte dai maggiori utili.

Qualcuno potrà mugugnare sulla scarsa ortodossia di queste iniziative. Ma uno statista, diceva De Gasperi, deve «guardare alle prossime generazion­i». Ce le siamo già giocate abbastanza.

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