«Si è messo a correre con occhi spiritati Poi gli spari, il dolore e ho visto il sangue»
«Mi aveva convocato come teste a suo favore ed ero andato in Tribunale per dovere civico, lo rifarei. Ma non avevo niente da dire in sua difesa. Tanto che penso abbia chiamato me e l’altro testimone (Lorenzo Alberto Claris Appiani che è rimasto ucciso, ndr) perché aveva già in mente di spararci». Ripensa a quella mattinata di terrore Stefano Verna, commercialista, 50 anni e due figlie piccole, dal letto della Clinica Santa Rita da dove sarà dimesso oggi.
Un proiettile gli ha trafitto il piede frantumandogli le ossa e un altro ha preso la coscia, a un soffio dall’arteria femorale: «Un miracolo se sono vivo».
Verna era fuori dell’aula dove Claudio Giardiello, in pochi minuti di follia, ha ucciso due persone ferendone gravemente un’altra. «Ero seduto, aspettavo di fare la deposizione e ho sentito degli spari. Ho visto l’ex cliente correre fuori con sguardo spiritato e sconvolto, d’istinto mi sono voltato per scappare ma ho sentito una terribile fitta al piede sinistro, poi un’altra alla gamba destra».
Mentre Giardiello proseguiva la sua corsa (e la mattanza che avrebbe tolto la vita a una terza persona) Stefano si è precipitato giù dalle scale, «col dolore e il sangue che usciva», fino all’uscita del Tribunale.
«Parevano tutti impazziti, un formicaio dove ognuno correva in direzione diversa, tra uffici e corridoi. Alcuni si erano barricati in cancelleria. Una scena che non dimenticherò mai». Appena fuori da Palazzo di Giustizia, si è steso a terra. L’ambulanza si è fatta attendere quasi mezz’ora: «Un medico che passava di lì e si è fermato; mi diceva “Tieni gli occhi aperti, pensa alle tue figlie”. Ho avuto paura, poco dopo ci hanno detto che c’erano dei morti…».
Era cominciato tutto il 19 marzo: a Stefano arriva la lettera del legale di Giardiello, Michele Rocchetti. Lo invita a comparire in aula per testimoniare in difesa del suo cliente. E lui, che da 9 anni di quella storia non aveva sentito più nulla, torna indietro con la memoria.
«Abbiamo frequentato per anni la stessa palestra, era per bene e simpatico, sicuro di sé. Forse un po’ sopra le righe, amante del lusso. Girava con una Mercedes coupé e parlava molto dei suoi affari — racconta Verna —. Nel novembre 2005 mi chiese di assisterlo per dirimere le controversie sorte coi suoi soci per le società immobiliari Miani, Washington e Magenta (il processo era per la bancarotta di quest’ultima, ndr). Col mio studio ho accettato». Tutto fila liscio per quattro mesi: «Rilevate le irregolarità contabili e di gestione, con presunti passaggi di denaro in nero, eravamo vicini a un accordo che avrebbe fatto uscire il cliente con una liquidazione di un milione di euro mettendo fine alle liti». Una cifra da capogiro,
Del nipote diceva di continuo che doveva chiedergli scusa in ginocchio
di cui essere soddisfatti. Ma a quel punto — ed era marzo 2006 — qualcosa succede. «Giardiello cambiò, l’atmosfera si fece tesissima. Alzava continuamente la posta, nessuna transazione pareva sufficiente, divenne molto aggressivo, urlava. Diceva ossessivamente del nipote: “Mi deve chiedere scusa in ginocchio”. Si è messo contro tutti, nessuno escluso. Scoperto che aveva il vizio del gioco abbiamo iniziato a dubitare delle sue ragioni».
A giugno 2006 lo studio Verna rinuncia all’incarico, e già il conte Tacchia (così veniva chiamato Giardiello quando il giro di speculazioni immobiliari andava bene) non è più lui. Niente più Mercedes coupé, ma «una piccola macchina un po’ scassata». Niente più attico di Brugherio, si era trasferito in alloggi sempre più angusti. L’ultimo a Garbagnate Milanese. Ma non si poteva permettere nemmeno quello.