La rabbia delle toghe: siamo lasciati soli
Le parole dei magistrati durante la commemorazione delle vittime. «Qui per chiedere rispetto»
«I magistrati non possono essere lasciati soli». Le parole del vice presidente del Csm Giovanni Legnini riempiono l’aula magna di Palazzo di Giustizia. A metà mattina giudici, pubblici ministeri e avvocati interrompono le udienze, affollano come non è mai avvenuto nella storia giudiziaria milanese la grande sala al primo piano che non riesce neppure a contenere l’enorme abbraccio di «questa città, che ci rappresenta tutti e rappresenta il nostro Paese».
Il pensiero di Legnini va ai tre morti della strage: il giudice Fernando Ciampi, l’avvocato Lorenzo Claris Appiani e il semplice cittadino Giorgio Erba, che davanti alla giustizia era arrivato nelle vesti di coimputato del killer Giardiello. L’applauso dell’aula si ammutolisce nel minuto di silenzio in ricordo delle vittime. Ma c’è anche la rabbia di chi ha scoperto la vulnerabilità della cittadella giudiziaria. «La sparatoria dimostra che la giustizia è stata lasciata sola», dice il presidente dell’Anm, Rodolfo Sabelli: «Siamo qui per chiedere rispetto. Sono fatti che hanno un valore direttamente simbolico», perché rappresentano «la solitudine in cui tante volte è stata lasciata la giustizia». Ma da Sabelli arriva anche un allarme per le misure di sicurezza «che non hanno funzionato a dovere».
Un lungo applauso sostiene la commozione di Alberta Brambilla Pisoni, la madre di Appiani: «Voi dovete decidere non per il cliente, ma fare quello che è giusto: non dovete essere marionette nelle sue mani». Quelle erano le parole che suo figlio ripeteva spesso. Lorenzo è stato ucciso nella furia di vendetta e morte di Claudio Giardiello mentre compiva il suo dovere testimoniando al processo per bancarotta fraudolenta. «Diceva che senza diritto, non ci sarebbe lo Stato, la comunità, la famiglia. Se farete in modo che ci sia il diritto, mio figlio non sarà morto invano», invoca la madre.
Quando i genitori di Lorenzo sono arrivati nell’aula, accompagnati dall’avvocato Vinicio Nardo, segretario dell’Unione delle camere penali, era ancora in corso la cerimonia per il giuramento dei giovani avvocati: «I genitori di Lorenzo non erano a disagio, ma hanno ricordato il giuramento di loro figlio», dice l’avvocato Nardo. Il presidente della Corte d’Appello Giovanni Canzio nel suo discorso all’assemblea cita altri tre caduti della giustizia milanese, i giudici Emilio Alessandrini e Guido Galli e l’avvocato Giorgio Ambrosoli. Nomi che sono come scolpiti nei marmi di Palazzo di Giustizia: «Lorenzo e il giudice Ciampi come Alessandrini, Galli e Ambrosoli stavano esercitando la loro funzione e il loro dovere», sono morti a causa di «un terrore diverso, ma che è sempre terrore». Per Canzio questo non è il giorno delle «rivendicazioni corporative» ma il momento di guardare avanti: «Non ci sentiamo una fortezza assediata e non vogliamo alzare ponti levatoi. Continueremo ad essere aperti verso i cittadini».