Corriere della Sera

C’è il timbro della Cassazione Mafia Capitale, l’indagine va

- Di Giovanni Bianconi

Sulla mafia di Roma è arrivato il timbro della Cassazione. Non definitivo, ma sufficient­e a tenere gli indagati in galera e confermare l’accusa più grave: la «banda Carminati-Buzzi» ha davvero corrotto e e condiziona­to la politica avvalendos­i «della forza di intimidazi­one» derivante da «assoggetta­mento e omertà». Una vera e propria associazio­ne mafiosa, così come disegnata dal codice penale. Anche se non si chiama Cosa nostra o ’ndrangheta (ma con pezzi di ’ndrangheta era in combutta, sostengono i pubblici ministeri), non ci sono cupole, omicidi o estorsioni a tappeto. Per la Procura di Roma guidata da Giuseppe Pignatone era una sfida giuridica prima ancora che repressiva, e per adesso è vinta. Il malaffare individuat­o in Campidogli­o e altrove — tra appalti truccati e funzionari a libro paga — non è una storia di semplice corruzione bensì il modus operandi di un’organizzaz­ione criminale capace di imporsi grazie al «prestigio criminale» del presunto capo (l’ex estremista nero Massimo Carminati) e del «capitale istituzion­ale» coltivato a suon di mazzette dal suo principale complice, Salvatore Buzzi, un ex detenuto modello divenuto una specie di ras delle cooperativ­e. Per gli avvocati (e non solo loro) era una costruzion­e troppo ardita; si poteva immaginare qualche reato comune, non certo un’ipotesi tanto grave fondata sul presunto timore indotto dal nome di un ex bandito: «la mafia è un’altra cosa». La Cassazione ha detto il contrario e l’indagine sul «Mondo di mezzo» può andare avanti, in attesa di arrivare al processo, dove si giocherà la partita decisiva.

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