L’INFLAZIONE PERICOLOSA DEL GRIDO «VERGOGNA!»
Diceva Nanni Moretti in Palombella rossa che «le parole sono importanti, perché chi parla male pensa male e vive male». Aveva ragione, e allora, 25 anni fa, forse non capimmo neanche quanta ragione avesse. Quella fulminante battuta mi è tornata in mente leggendo il tweet di Matteo Orfini con il quale non ha ottenuto le dimissioni di De Gennaro dalla presidenza di Finmeccanica ma ha ottenuto di costringere il premier a confermarlo e ad esprimergli stima imperitura.
«È una vergogna che De Gennaro resti in Finmeccanica» diceva quel cinguettio emesso sull’onda della emozione per la sentenza della Corte europea sui fatti del G8 di Genova. E mi sono chiesto: perché Orfini ha scritto «vergogna»? Avrebbe potuto dire «è inopportuno che resti», oppure «è sconveniente», oppure ancora «è scorretto», o «è ingiusto». Avrebbe anche potuto più semplicemente dire «non sono d’accordo che De Gennaro resti», i politici hanno il dovere oltre che il diritto di esprimere le proprie opinioni. Orfini è uomo colto, sa come esprimersi con proprietà. Eppure non ha resistito a usare la parola «vergogna», perché lo spirito del tempo richiede di ricorrere alla categoria dei giudizi morali per combattere gli avversari nell’arena del dibattito pubblico. Il giustizialismo prima e il vaffanculismo poi hanno così profondamente modificato lo spirito della nazione che non si riesce più a dire a uno «hai torto» senza aggiungere «dovresti vergognarti», come avviene costantemente, per esempio, in Rete.
Le conseguenze sono gravi. Tra persone che si intimano a vicenda di vergognarsi non è più possibile condividere la sfera pubblica democratica, che ha bisogno del confronto tra opinioni legittime e non sopporta anatemi. In più, caro Orfini, prima o poi spunta sempre qualcuno che a chi urla «vergogna» ricorda di che cosa lui stesso dovrebbe vergognarsi. Su Corriere.it Puoi condividere sui social network le analisi dei nostri editorialisti e commentatori: le trovi su www.corriere.it inesausta miniera di paradossi della giustizia italiana offre talvolta pepite troppo grosse per passare inosservate. Per il clamore del caso, com’è accaduto nel giallo di Perugia. O per il rilievo dei personaggi, come capita adesso con Vasco Errani.
Presidente dell’Emilia-Romagna dal 1999, stimato trasversalmente dai compagni di partito del Pd e dagli avversari, Errani si dimette dopo quindici anni di governo regionale, a luglio del 2014, quando la seconda sezione della Corte d’appello di Bologna gli infligge un anno di reclusione (con pena sospesa) per falso. La vicenda è complessa. Il fratello maggiore, Giovanni, è presidente della cooperativa vinicola «Terremerse» che ottiene dalla Regione un finanziamento di un milione per la costruzione di una cantina. Secondo la Procura, dietro quel finanziamento ci sarebbe una truffa e Giovanni