Hanno sequestrato la «Madonna»: amore e morte nel Sud estremo
«Miciè voluto tempo per capire che le gioie non sono fiori gettati sulle piaghe. Che le piaghe non curate, anzi, si allargano a dismisura, in un ricettacolo d’immondizia visibile agli occhi di quei pochi che vogliono vedere». Così racconta Carmen Totaro la storia di Palma Castrocappone in Le piene di grazia (Rizzoli), cioè la trafila di quegli eventi che si scatenano dalla consapevolezza che le ferite, seppure non visibili sulla pelle, ma nell’anima, vanno curate. Anche ricorrendo a soluzioni estreme come un delitto che la donna compie per eliminare la rivale, o meglio una delle aguzzine, che aveva causato la morte di sua sorella Maria Rosaria.
Siamo in provincia di Foggia, anni Settanta-Ottanta e il carico di fatti che vi accadono è agghiacciante. Maria Rosaria è giovane, la più bella del paese a cui viene sempre chiesto di rappresentare la Madonna in processione per quel suo viso che pare dipinto. Quella bellezza le è d’inciampo perché si innamora, ricambiata, di un ragazzo ombroso e squallido, Cosimo Logreco, rampollo di una famiglia poco raccomandabile. «La paglia vicino al fuoco s’accende » ripete un adagio di quelle parti e Maria Rosaria resta incinta.
Contro di lei ha tutto: il partner che la rifiuta, la sua giovane età, l’ostilità un po’ cieca un po’ velenosa della famiglia di origine e soprattutto la condanna a morte che hanno firmato sul suo conto i Logreco «perché questa poi non possa andare in giro con una creatura in braccio a pretendere cose da loro e tenerli inchiodati alle chiacchiere del paese».
La giovane «madonna» si mette in trappola da sola. Si presenta a casa di Cosimo, con una piccola borsa, sperando che «lui faccia il suo dovere». E invece trova la sorella dell’uomo, Nunziata, e un suo compare, Raffaele, che la rapiscono e la portano in un casolare abbandonato, sporco e freddo per tenerla prigioniera fino al momento del parto. Per la poveretta cominciano vessazioni e tormenti, torture e abomini, alimentati da Nunziata incarnazione della malvagità, ma soprattutto rientrano nella strategia orchestrata dal capofamiglia Savino per appropriarsi del nascituro e affidarlo a una famiglia benestante già individuata.
La situazione precipita con Maria Rosaria che si ammala, non viene curata, tenta la fuga, viene ripresa e alla fine partorisce. Ormai non serve più e, infatti, i Logreco la abbandonano in una pozza di sangue davanti al Pronto Soccorso. Seguono le cure, ormai inutili, perché la giovane è «morta dentro» e seprincipio gue il desiderio di vendetta di sua sorella Palma, che accoltella a morte Nunziata quando, anni dopo, anche lei resta incinta.
Una vendetta resa ancora più impellente dal mancato corso della giustizia, che individua i colpevoli ma li lascia indisturbati: «Il magistrato ha archiviato tutto perché la colpa non è di nessuno» afferma don Savino. Emerge un mondo barbaro, antecedente all’avvento della razionalità e della civiltà e amplificato dalla presenza della religione che non è consolazione, ma vuoto, perpetrazione dell’ingiustizia. Una religione che confonde le acque, attenua le colpe dei carnefici trasferendole sulle vittime, frantuma il di responsabilità e offusca la luce della ragione, come quando il sacerdote, che va a benedire le case, dice a Palma: «Da quello che so tua sorella è andata là con le sue gambe». La donna commette il suo delitto e ne paga — lei sì — le conseguenze col carcere. Ma poi, scontata la pena, esce e si riconcilia con il suo dolore e se stessa.
Carmen Totaro, nel suo romanzo d’esordio, disegna con abilità un itinerario, quello dell’amore e del tradimento, della crudeltà e della vendetta, dell’espiazione e del dolce ritorno alla vita. A quella dimensione, dove gli affetti veri restano. E riscaldano.