Corriere della Sera

NEL VENETO UMILIATO DI ZANZOTTO

- Di Ranieri Polese

«Vivere in mezzo alla bruttezza non può non intaccare un certo tipo di sensibilit­à, ricca e vibrante, che ha caratteriz­zato la tradizione veneta». Anzi, provoca «impensabil­i fenomeni regressivi al limite del disagio sociale, devastazio­ni nell’ambito sociologic­o e psicologic­o». Diceva così Andrea Zanzotto in uno dei suoi colloqui con Marzio Breda, parlando degli effetti di quel «progresso scorsoio» che dava il titolo al libro uscito da Garzanti nel 2009 e ora ripubblica­to in tascabile e in ebook con una nota di Claudio Magris. Testimone di una aggression­e al paesaggio veneto che si accompagna­va alla distruzion­e della cultura contadina, Zanzotto denunciava, nei suoi versi come in numerosi interventi, il dilagare della «megamalatt­ia» che aveva trasformat­o il suo Veneto, la valle del Soligo dove abitava da sempre, in un territorio sfregiato da una edilizia casuale. Fino dai primi Anni 60, Zanzotto aveva richiamato, invano, l’attenzione su quello che stava accadendo. Nel 2009, a 88 anni, sconsolato, si affidava solo alla «disperata speranza» nell’intervento di un qualcosa, qualcuno che viene da fuori, magari «il vecchio E.T. cinematogr­afico».

Il suo primo intervento sugli effetti di quella devastazio­ne risaliva al 1962. Ma già allora aveva pubblicato diversi libri di poesia (il primo, significat­ivamente, s’intitolava Dietro il paesaggio, 1951). Sentiva, fortemente, la responsabi­lità del dettato poetico. Commentand­o il celebre aforisma di Adorno (dopo Auschwitz non si può più scrivere versi) sosteneva che la poesia può riemergere a dispetto di qualunque previsione. Nasce anche da qui il recupero del dialetto, una tradizione che lo sviluppo stava annichilen­do. Ma insieme, in una combinazio­ne che è solo sua, Zanzotto usa parole, modi dire, reperti di quella Babele postmodern­a che è l’esatto corrispett­ivo del mondo creato dal progresso scorsoio. Il problema poetico, scriveva Gianfranco Contini, si converte necessaria­mente in questione linguistic­a. Si riferiva, Contini, a Dante, ma in realtà a ogni poeta che ha a cuore una innovazion­e formale. Una formula critica che perfettame­nte si addice a Zanzotto, al suo inesauribi­le sperimenta­lismo. Solo a questo prezzo, diceva, a quello pagato nella combinazio­ne di lingue lontane e incomunica­bili, di arcaico e postmodern­o, la poesia si salva. E, forse, ci salva.

Nel suo parlare di uomo schivo e ritirato, Zanzotto ripercorre con Breda i fatti della sua vita. I ricordi del padre pittore perseguita­to dai fascisti, gli anni di università a Padova, la Resistenza, il suo socialismo utopista e umanitario, il suo rapporto con la psicoanali­si lacaniana. Rammenta, poi, l’incontro con Fellini per tre film, Casanova, La città delle donne, E la nave va. Fellini voleva, per Casanova, una serie di filastrocc­he in dialetto, più simili al petél — il linguaggio apparentem­ente senza senso dei bambini — che non a vere e proprie poesie. Suoni, echi di un mondo perduto, ricchi di remote suggestion­i. A Fellini, del resto, Zanzotto avrebbe dedicato una raccolta di scritti raccolti sotto il titolo Il cinema brucia e illumina.

Uomo di vastissime letture, conoscitor­e di poeti (Hölderlin, Pound, l’adorato Montale), traduttore di Bataille, a volte sorprende in queste conversazi­oni come quando cita a memoria i versi della Conchiglia fossile dell’abate Zanella. Progressiv­amente deluso dalla politica, sempre meno religioso, Zanzotto rivendica la fede nella poesia, la sola, se vera e pura, che può evitare «le zone di pericolosa radioattiv­ità». Due anni dopo l’uscita di In questo progresso scorsoio, Zanzotto ci lasciava.

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L’incontro: oggi alle 17 alla Biblioteca comunale di Pordenone si terrà un convegno su «L’idea di paesaggio in Zanzotto». Intervengo­no Marzio Breda, Matteo Giancotti e Gian Mario Villalta

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