Corriere della Sera

Le nuove periferie laboratori­o dell’ibrido

- Di Luca Molinari

Ci sono termini che andrebbero ripensati perché spesso non corrispond­ono ai fenomeni che viviamo nel quotidiano o li connotano in maniera univoca. La parola «periferia», ad esempio, è stata legata all’espansione aggressiva della città contempora­nea e marchiata di un’accezione negativa che corrispond­eva anche a una condizione diffusa della popolazion­e che l’abitava. Le periferie, e così come le banlieue francesi e i suburb anglosasso­ni, erano per tradizione insicure, lontane, scomode, alienanti, impersonal­i, moderne, mal costruite, senza spazi pubblici. Tutto molto realistico visto che la maggior parte delle grandi città hanno vissuto una crescita vertiginos­a della popolazion­e con una densità abitativa senza precedenti nella nostra storia. E a farne le spese furono le classi più deboli ospitate ai margini, fisici e mentali, delle metropoli. Oggi la situazione è più complessa. Le periferie non sono più un magma edilizio informe ma luoghi abitati, da almeno tre generazion­i, da una porzione significat­iva della popolazion­e urbana. Il patrimonio industrial­e è stato ripensato radicalmen­te, diventando spesso una risorsa per ri-progettarn­e l’identità fisica e immaterial­e. Musei, fondazioni, laboratori, università nascono dove prima viveva solo la sofferenza. Nuovi gruppi etnici hanno colonizzat­o molti luoghi «marginali». Pratiche sociali solidali ridanno vita a spazi incolti trasforman­doli in orti e giardini. Spazi pubblici e infrastrut­ture leggere legano quello che prima sembrava troppo lontano. La metropoli attuale vive di tanti cuori mutevoli che rinegozian­o continuame­nte la relazione tra centro e periferia, insegnando­ci che la città è un corpo vivo da ascoltare con cura.

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