Le nuove periferie laboratorio dell’ibrido
Ci sono termini che andrebbero ripensati perché spesso non corrispondono ai fenomeni che viviamo nel quotidiano o li connotano in maniera univoca. La parola «periferia», ad esempio, è stata legata all’espansione aggressiva della città contemporanea e marchiata di un’accezione negativa che corrispondeva anche a una condizione diffusa della popolazione che l’abitava. Le periferie, e così come le banlieue francesi e i suburb anglosassoni, erano per tradizione insicure, lontane, scomode, alienanti, impersonali, moderne, mal costruite, senza spazi pubblici. Tutto molto realistico visto che la maggior parte delle grandi città hanno vissuto una crescita vertiginosa della popolazione con una densità abitativa senza precedenti nella nostra storia. E a farne le spese furono le classi più deboli ospitate ai margini, fisici e mentali, delle metropoli. Oggi la situazione è più complessa. Le periferie non sono più un magma edilizio informe ma luoghi abitati, da almeno tre generazioni, da una porzione significativa della popolazione urbana. Il patrimonio industriale è stato ripensato radicalmente, diventando spesso una risorsa per ri-progettarne l’identità fisica e immateriale. Musei, fondazioni, laboratori, università nascono dove prima viveva solo la sofferenza. Nuovi gruppi etnici hanno colonizzato molti luoghi «marginali». Pratiche sociali solidali ridanno vita a spazi incolti trasformandoli in orti e giardini. Spazi pubblici e infrastrutture leggere legano quello che prima sembrava troppo lontano. La metropoli attuale vive di tanti cuori mutevoli che rinegoziano continuamente la relazione tra centro e periferia, insegnandoci che la città è un corpo vivo da ascoltare con cura.