LE TROPPE AMNESIE SU GIUSTIZIA E SICUREZZA
La differenza con la strage di Milano è forse che questi eclatanti 13 proiettili sembrano di colpo risvegliare dall’amnesia sul congiunto bisogno di giustizia e sicurezza, e proiettare sull’ingigantita sanguinosa scala di 3 morti e 2 feriti l’ombra di quanto i tribunali siano oggi la prima e più esposta trincea, la calamita e al contempo la valvola di sfogo di sempre più rabbiose tensioni sociali, esasperate rivendicazioni economiche, aspre conflittualità familiari, represse frustrazioni personali.
Una miscela micidiale che, se trasforma in «nemici» simbolici i magistrati oggettivamente già bersaglio da parte di larghi strati della politica di quello «strisciante discredito» denunciato dal presidente della Repubblica, espone però al destino di capri espiatori anche gli avvocati che, proprio come nella commovente testimonianza della mamma del legale ucciso, tengono dritta la schiena deontologica e rifiutano di fare «la marionetta» del cliente.
Sul piano del contenimento dei rischi entro fisiologiche e mai del tutto eliminabili percentuali di imprevedibilità, non sarebbe difficile individuare utili correttivi, a patto però di fare seguire alle parole i soldi per le dotazioni tecnologiche e i fatti per rimediare alla disfunzionale sovrapposizione di competenze: quella che in molti casi, come sui 30.000 metri quadrati dei 7 piani di Milano, vede un ministero proprietario (Economia), un ministero utilizzatore (Giustizia), un ministero attore della manutenzione straordinaria (Infrastrutture), e un ente pubblico (il Comune) chiamato a pagare la manutenzione ordinaria con spese che poi un ministero (Giustizia) rimborsa non di rado in ritardo. Altrimenti resterà illusorio inseguire la singola risolutiva «falla» in un sistema di controlli nel quale la «falla» si riveli uno dei buchi di un sistematico groviera: traforato negli anni dalla riduzione dei budget e dal conseguente subappalto a società di vigilanza privata (peraltro non sempre di cristallina affidabilità) o persino ad agenzie di semplice portierato, della responsabilità di un potere tipicamente pubblico come il controllo della sicurezza nei luoghi dove si amministra giustizia.
Contenere l’eventuale paranoico tracimare della palude dell’odio dilagante e della rabbiosa rivalsa contro chi per conto dello Stato deve far pagare le tasse (come all’epoca dei pacchi bomba a Equitalia) o far rispettare le regole della convivenza (come nei tribunali), non basta però a bonificare questa palude. A togliere alibi alle esasperazioni e a bagnare le polveri della paranoia può forse in parte giovare anche rilegittimare lo strumento del processo (quello civile ancor più di quello penale) adeguandolo all’obiettivo per il quale ha senso: non solo distribuire torti e ragioni, ma (nel farlo) risolvere un problema in tempi accettabili e con percorsi comprensibili alle parti. Prima che a risolverlo fuori dalla giurisdizione sia il dispiegarsi dei rapporti di forza.