Perché il verde «dominato» non fa bene a noi né alle piante
Le due Daphne odora hanno perso gli ultimi fiori proprio qualche giorno fa: una fioritura lunga, profumatissima, un aroma dolce appena speziato. Adoro questo loro regalo di fine inverno, che aleggia e ti sorprende, eppure mi preparo a salutarle. Vent’anni fa erano pianticelle appena ramificate alte due spanne, ora superano il metro e son larghe quasi due, ma delle tre iniziali una non c’è già più. Le dafne, come le lavande e i verbaschi, non sono longeve: raggiungono velocemente dimensioni
mature, regalano fioriture spettacolari e poi, quasi senza preavviso, muoiono. Il buco lasciato dalla terza è stato colmato dai vicini, vi si son autodisseminati ellebori, bucaneve e un piccolo geranio, il Geranium macrorrhizum
‘Album’, dal fogliame balsamico. Uno dei materiali più importanti del giardino, le piante, è vivo, si muove costantemente crescendo, spuntando dove preferisce e andandosene quando meglio crede. Il giardino cambia, a meno di uno strenuo lavoro per mantenerlo uguale a se stesso. È interessante come in passato, quando noi eravamo meno numerosi, la natura era padrona e noi la temevamo — per ignoranza e per rispetto — erano in voga giardini formali, con piante regimentate in rassicuranti blocchi verdi. Con l’avanzare del sapere scientifico non l’abbiamo più temuta e in giardino alle piante è stata concessa più libertà, persa oggi nuovamente in quel minimal chic che ce ne allontana — non per rispetto ma per pigrizia e ignoranza. Forse, sia per noi che per le piante, sarebbe il caso di non creare nuovi spazi dove il verde vien trattato come polli in batteria: staremmo tutti meglio.