Un laboratorio per reinventare lo champagne
Lo chef Adrià: 3 anni con Dom Pérignon per creare il miglior vino del mondo
a fianco di Adrià come «amicizia platonica». «Abbiamo la responsabilità di pensare a un futuro migliore — continua Adrià — chi berrà Dom Pérignon negli anni a venire capirà la differenza».
Adrià ha chiuso il suo celebre ristorante, El Bulli, nel 2011, con un’ultima cena a fianco di Dom Pérignon, dopo aver firmato 1.846 ricette (pubblicate in un catalogo di 7 volumi da Phaidon Press) che vengono studiate anche nelle business school come esempio di longevità creativa. Poi ha varato la Fondazione elBulli, nella quale si dedica alla ricerca, grazie anche all’aiuto di alcuni «angeli», ovvero finanziatori, come Lavazza, Telefonica, ed ora Dom Pérignon. La storia è nota.
Nel suo ristorante Adrià aveva vinto tutto: per cinque volte era stato eletto il migliore chef al mondo. «Voglio chiudere per trasformarmi», aveva detto. L’anno dopo la chiusura ha messo all’asta la sua cantina, 1.600 vini diversi, 10.000 bottiglie, una lista di 139 pagine (Bordeaux, Borgogna, Champagne ma anche Barolo Voerzio, Barbaresco Gaja, Brunello Case Basse e Amarone Quintarelli).
Adrià ha 52 anni, è basso, ha capelli corti e grigi, e uno sguardo che racconta fatiche e stupori. Viene da un quartiere Alleanza A sinistra Ferran Adrià insieme con Richard Geoffrey (Dom Perignon): lo chef torna sulla scena con un progetto legato al vino operaio (Santa Eulalia a l’Hospitalet), il padre faceva lo stuccatore, non ha mai frequentato l’università ma ora ha quattro lauree honoris causa.
Non cucinava lontano da El Bulli da 15 anni. Lo ha fatto l’altra sera a Barcellona con una serie di 29 snack, un rituale con una serie di «bienvenida» entrato al Bulli già nel 1994. C’era qualcosa di ascetico anche nelle luci, spirali bianche che scendevano dal soffitto per illuminare le torri con lo Champagne e vari percorsi di degustazione, tra fiori al pistacchio, ostriche, foglie di mango essiccate e impalpabili, un gel di oliva-non oliva, asparagi con tartufo nero, gelato di parmigiano (e le orecchie di coniglio fritte), per soffermarsi sulla mineralità, sull’intensità e sull’armonia del vino. È il metodo che Adrià per far concentrare i commensali sui singoli cibi. Si chiama Sapiens.
Il titolo della serata era «This is not a dinner» (Questa non è una cena), «un rituale minimalista attraverso il quale si prova l’emozione Dom Pérignon nella sua assolutezza. Per far capire l’ultima annata, la 2005, in commercio dopo 9 anni di elaborazione in cantina e già quasi esaurita sul mercato (a tempo di record). Un’annata difficile con un alternarsi di periodi caldi e piovosi e una epidemia di Botrytis, una muffa grigia. «Volevano rinunciare all’annata — racconta lo chef de cave —, poi abbiamo pensato che sarebbe stato un fallimento. Di quel diluvio di settembre rimane una tensione verso la purezza, una morbidezza intensa e una presenza decisa che culmina in un finale fiorito e speziato».
Come riuscirà Adrià a trasportare le menti e i palati sull’essenza di Dom Pérignon? «Questo non è un progetto sul cibo e sul vino — spiega il super chef —, è un progetto di decodifica, di sperimentazione e di amplificazione dell’esperienza in maniera olistica, attraverso tutti i sensi, la metodologia che si applica nel elBullilab. Mi ispiro a Anthelme Brillat-Savarin che, con “La fisiologia del gusto”, ha aperto la strada a questo tipo di riflessioni».
Perché con Dom Pérignon? «Perché è lo champagne — dice sicuro Adrià —, è l’unico con il quale ho voluto legarmi. Abbiamo registri di pensiero compatibili, un comune credo nel potere della creatività».