«Così potete affacciarvi sul mondo Periscope aiuterà i giovani»
Il vicepresidente di Twitter racconta il nuovo social: la chiave è l’interattività
robabilmente Johann Gutenberg di fronte a quei cuoricini si sarebbe fatto una gran risata. Perché in un certo senso è grazie a lui se oggi si parla più di un’applicazione che della fame nel mondo. Era il XV secolo quando l’inventore tedesco costruì un tubo con due lenti all’estremità per consentire ai pellegrini di Aquisgrana di guardare sopra le teste dei loro compagni. Non sapeva che il mondo nel giro di qualche annetto sarebbe impazzito per uno strumento dal nome simile, Periscope.
Cambiano un paio di lettere ma il concetto non è così lontano dai pellegrini. Si scarica un’applicazione e si trasmette live al mondo dal proprio smartphone qualsiasi cosa si voglia (porno escluso). In alternativa, si guarda gli altri fare altrettanto e si tappa sullo schermo per far comparire un po’ di cuori colorati in segno di gradimento. È lo streaming per dirla alla grillina, o la diretta, per i nostalgici del tubo catodico. L’obiettivo tuttavia è andare oltre al video e rendere più persone possibili sia spettatori che protagonisti di uno stesso evento in contemporanea. «La chiave di tutto è l’interattività», spiega con un sorriso a trentadue denti il vice presidente di Twitter Alex Roetter seduto nel suo ufficio di Market Street a San Francisco .
Non è passato nemmeno un mese da quando Twitter ha lanciato in rete la sua nuova creatura costata, pare, ben 100 milioni di dollari e già il mondo in qualche modo è cambiato. «Abbiamo voluto questa applicazione
Market street
Alex Roetter è vicepresidente di Twitter. Si è laureato (con lode) in Informatica all’università di Stanford e prima di approdare alla creatura di Jack Dorsey, cinque anni fa, ha lavorato per sette anni a Google come informatico e Technical Lead della squadra che era stata allora creata per lo sviluppo di AdSense perché sapevamo di avere davanti qualcosa in grado di cambiare la rete», continua Roetter che, dopo un passaggio in Google e in altri colossi del tech, è diventato il braccio destro di Dick Costolo.
«Twitter è una piattaforma che parla a tutti, giovani compresi. E siamo sicuri che Periscope ci darà delle soddisfazioni in questo senso». Non è un caso che a inventare Periscope, in pieno rispetto della tradizione della Silicon Valley, siano stati due giovani bianchi e dall’aria piacente, Kayvon Beykpour e Joe Bernstein. E se paragonarli a Gutenberg forse è un po’ troppo, non c’è alcun dubbio che dei due sentiremo parlare ancora.
«Abbiamo voluto loro perché sappiamo come lavorano e come funziona il loro team», sorride ancora Roetter. E fa niente se Periscope non è il primo software in grado di offrire questo servizio. La sintesi? «La sua forza sta nel binomio con Twitter, anche se per il momento abbiamo deciso di tenere separati i due ambienti per lanciare l’app evitando di inserire qualsiasi tipo di pubblicità » . Oltre alla possibilità di condividere gli streaming sul proprio profilo Twitter, la chiave del successo di Periscope è l’opzione che consente a chi guarda di commentare in diretta e a chi sta girando di rispondere direttamente a voce. Siamo allora in presenza di un grande buco della serratura interattivo? «Affermarlo sarebbe davvero una semplificazione», è la replica. Per dare conto del fenomeno c’è qualcosa che parte da Gutenberg, passa per il Rinascimento italiano e arriva fino ai microchip. «Oggi mentre guardo il lavoro di questi mesi, non posso non pensare a quando mi stavo laureando in ingegneria e da studente a Firenze lavoravo sulle immagini in 3D del David di Michelangelo», continua Roetter. Da Aquisgrana, passando per Firenze fino a San Francisco dunque il salto non è così assurdo, se si pensa che Periscope viene usata ormai davvero da utenti di ogni tipo.
«Ci sono mamme che ci raccontano le fiabe ai loro figli quando sono lontane», fanno sapere da Market Street. E non è mancato chi ha deciso di dirci la messa di Pasqua come il cardinal Scola o chi ci ha fatto le dirette sul contenuto del proprio frigorifero, in pieno rispetto del citizen journalism che tanto piace.
E, ancora, questa applicazione fa gola ai vip di tutto il mondo. Compresi i nostrani, da Fiorello in passando per J-Ax fino a Daria Bignardi che, un po’ provati da Instagram, hanno capito le potenzialità pubblicitarie del nuovo giocattolino e ci sono buttati a capofitto.
Ma non solo. Periscope oggi rischia di favorire la meritocrazia più di mille riforme del mercato del lavoro. Esempio vivente ne è Lidia Schillaci. Cantante, attrice, classe ’84, piglio siciliano, prima del lancio dell’applicazione questa ragazza era per lo più sconosciuta. Poi un bel giorno le è arrivata sul telefono un’arma. «Una mia amica lavora per Twitter e mi ha dato la possibilità di provarlo in anteprima», racconta. Un favoritismo? No perché Lidia ha saputo sfruttare in pieno le potenzialità del mezzo. E oggi con i suoi #LidiaLive si è conquistata ben 295.904 mila cuoricini. «Ho capito quasi subito che non va usato per raccontare i fatti propri. Ma piuttosto per mostrare il proprio talento», sottolinea. Risultato, Lidia grazie ai suoi live (uno dei più popolari quello in cui cucina la pasta con le sarde cantando), è stata ospite a «Quelli che il Calcio», il sito di tech americano «Mashable» l’ha menzionata in un articolo ed è diventata amica di Fiorello, altro pioniere di Periscope. Come dire, insomma, che qualche volta i social network una mano alla carriera la danno per davvero. Dunque a Gutenberg forse scapperebbe da ridere. Ma Periscope ormai c’è entrato nel sangue. E non importa se ci trascina sempre più giù nella tana del bianconiglio. L’importante è esserci, live, e far vedere a tutti di cosa siamo capaci. Anche se si tratta della pasta alle sarde.
Abbiamo voluto lanciare questa app perché cambierà la Rete Twitter parla a tutti Siamo sicuri che Periscope darà risultati Ho molto ripensato a quando ero a Firenze e studiavo il David in 3D Il nuovo social? Le mamme lo usano per raccontare le fiabe ai loro figli
@martaserafini Innovative, digitali, sostenibili. In una parola «smart», cioè intelligenti: così vogliono essere le città del futuro. L’obiettivo? Migliorare la vita dei cittadini per renderli più felici, ponendo al centro ambiente, salute ed efficienza. Nel mondo di città che si ispirano a questi principi ce ne sono già diverse: uno studio della società di consulenza IHS Technology pubblicato nel 2014 ne contava 21 nell’anno precedente (con un investimento totale di un miliardo di dollari), numero che salirà a 88 entro il 2025 (con uno sblocco di fondi pari a 12 miliardi). Le più interessanti, stando a un sondaggio della società di analisi Juniper Research pubblicato a metà gennaio 2015, sono Barcellona, New York City, Londra, Nizza e Singapore. La regione che conta il maggior numero di «smart city», ad oggi, è la Emea (Europa – Medioriente – Africa), ma nei prossimi anni si prevede che sarà superata da Asia e Pacifico. Anche in Italia, negli ultimi anni, sono stati lanciati diversi progetti legati alle «smart city». Al Vademecum per la città intelligente, il manifesto dell’Osservatorio Nazionale Smart City dell’Anci, hanno aderito 30 Comuni. Due sono i dati che colpiscono: l’adesione di centri da tutta la penisola e la presenza nell’elenco di realtà anche molto piccole. Ci sono i grandi centri come Milano, Firenze e Napoli, ma anche piccoli paesi come San Michele di Ganzaria (3 mila abitanti in provincia di Catania), Oriolo Romano (4 mila abitanti in provincia di Viterbo) e Tavagnacco (14 mila abitanti in provincia di Udine). In questa rubrica ogni venerdì parleremo di queste nuove realtà, raccontando come questi progetti stanno cambiando le città italiane. Dalla demotica alla gestione dei rifiuti, dai trasporti alla sicurezza del territorio, dalla scuola alla gestione dell’invecchiamento della società. Dai software che i cittadini possono scaricare sul loro smartphone alle piattaforme utilizzate dalle amministrazioni locali. Senza dimenticare le startup innovative che stanno partendo in tutta Italia e che provano a reinventare le risposte ai bisogni dei cittadini. E poi ci sono i progetti che magari con la tecnologia hanno poco a che fare ma che vogliono ridisegnare quartieri e città, come gli orti urbani o i progetti di riqualificazione di aree dismesse tramite community di cittadini. Insomma, di idee ce ne sono tantissime. Vi invitiamo a raccontarcele: potete inviare le vostre testimonianze e segnalazioni scrivendo a smartcity@corriere.it. O contattandoci tramite i nostri account Twitter.
morosisilvia
gretascl