Garrone, Moretti e Sorrentino «L’orgoglio italiano va a Cannes »
Il kolossal fiabesco, i dolori familiari, la giovinezza perduta: in gara tre stili diversi
Il ritorno prepotente del Bel Paese. Cannes all’italiana: Paolo Sorrentino, Matteo Garrone, Nanni Moretti. Quest’anno ci sono tre registi importanti con film che hanno aspirazioni internazionali, tre habitué del «Festival più grande del mondo», come dice il direttore Thierry Frémaux alla presentazione della 68ª edizione (13-24 maggio).
I registi in gara (tutti hanno preso premi in passato a Cannes) si sono incontrati per una foto insieme e per rilasciare una dichiarazione congiunta, firmandosi in ordine alfabetico: «Siamo felici e orgogliosi di rappresentare l’Italia al Festival di Cannes. Siamo consapevoli che è una grande occasione per noi e per tutto il cinema italiano. I nostri film, ognuno a suo modo, cercano di avere uno sguardo personale sulla realtà e sul cinema; ci auguriamo che la nostra presenza possa essere uno stimolo per tanti altri registi italiani che cercano strade meno ovvie e convenzionali».
Mia madre di Moretti (girato a Roma, da ieri nelle sale), è l’Italia degli affetti spezzati, lui si è ritagliato un ruolo laterale ma l’ombra di Nanni si allunga nell’alter ego, Margherita Buy, nei panni di sua sorella, raccontando l’agonia della loro madre morente. «Il personaggio di Margherita appare inadeguato, conosco bene il senso del disagio. C’è molto di autobiografico», dice Nanni.
In Youth-La giovinezza di Sorrentino, ambientato in Svizzera (e alcune scene a Venezia) c’è la clessidra del tempo agli ultimi granelli di sabbia: in un elegante albergo sulle Alpi, due vecchi amici si ritrovano alla soglia degli 80 anni, Harvey Keitel un regista ancora in attività, e Michael Caine nei panni di un direttore d’orchestra «in pensione» (così viene detto, ma un direttore può ritirarsi, non va in pensione). «Sanno che il loro futuro si va velocemente esaurendo — dice il regista premio Oscar che a Cannes vinse nel 2008 con Il divo — e decidono di affrontarlo insieme. Guardano con curiosità e tenerezza alla vita confusa dei propri figli, agli altri ospiti dell’albergo, a quanti sembrano poter disporre di un tempo che a loro non è dato».
Il racconto dei racconti (Tale of Tales) di Garrone (due volte vincitore del Grand Prix con Gomorra e Reality) è l’Italia dell’immaginazione più accesa: boschi e castelli, re e regine, draghi e streghe, tra Puglia, Sicilia, Lazio e Toscana. Si è ispirato alle fiabe di Giambattista Basile, autore napoletano del XVII secolo, «in lui ho ritrovato quella commistione fra reale e fantastico che caratterizza la mia ricerca, anche se può sembrare un film lontano da quelli che ho fatto finora. Ma è la prima volta che mi avventuro in un territorio soprannaturale giocando con la magia».
Matteo Garrone ha sentito un suono familiare, «un tono pieno di ironia e aspetti dark. Come definirei il mio film? Un fantasy con elementi horror. Un mondo in cui sono riassunti gli opposti della vita, l’ordinario e lo straordinario, il magico e il quotidiano, il regale e lo scurrile, il terribile e il soave».
Tre storie «molto contemporanee» collegate solo all’inizio e alla fine.
Nella prima, il re e la regina sono Salma Hayek e John C. Reilly, e protagonista è l’amore tra il figlio albino della regina e la figlia albina della sua bella serva. Nel secondo il re piacione e erotomane Vincent Cassel si innamora di una donna (Stacy Martin) trasformata da vecchia a giovane. Nel terzo regno, Toby Jones e la principessa Bebe Cave, che viene salvata da marito e moglie (la strana coppia Massimo Ceccherini e Alba Rohrwacher) di una famiglia circense. Film in costume; sono di Massimo Cantini Parrini cresciuto nella gloriosa sartoria Tirelli (che ha seguito anche Sorrentino): rasi, broccati, ricami, pizzi.
A una domanda bizzarra, se i film di Sorrentino e Garrone siano stati girati in inglese per compiacere il mercato anglosassone, il direttore Fremaux ha risposto: «No, l’inglese è una lingua mondiale».