Ritorno a un’alleanza che risale a Leonardo
arte mira all’eternità; la moda al breve tempo di una stagione. Eppure, fra le due, nei secoli c’è sempre stato un fitto colloquio. Certa diffidenza dell’arte nei confronti della moda è nata solo con la rivoluzione industriale che ha separato la produzione dalla manualità. Prima, anche i grandi maestri come Bernini o Leonardo avevano fornito disegni per cinture, borse, tessuti tanto è vero che nell’Inghilterra della seconda metà del XIX secolo, il movimento Art & Crafts fu promosso proprio con lo scopo di rimediare allo scadimento qualitativo ed estetico della produzione seriale e di tornare ad affidare alla cura degli artisti i manufatti della vita quotidiana. Ancora nel Seicento, una figura intera dipinta dal più pagato dei ritrattisti, Antoon van Dyck, valeva meno di un abito: i due superbi ritratti di Caterina Balbi e del marito Marcello Durazzo gli furono pagati 373 lire genovesi, un prezzo di gran lunga inferiore alla veste di velluto guarnita d’oro indossata da Caterina e pagata 412 lire. I ruoli apicali del tessere e del cucire, poi, sono stati per secoli appannaggio degli uomini: a capo dell’atelier di ricamo per paramenti liturgici del monastero dell’Escorial c’era, per esempio, il ricamatore frate Lorenzo de Monserrat. E ancora nel XVIII secolo, in Spagna, il ricamatore di corte Juan Lòpez de Robredo ricevette dal re il permesso di vestire un’uniforme simile a quella usata dai pittori e dagli scultori di corte. Oggi molti musei sono tornati ad aprire ai sarti le loro sale: non solo il Guggenheim di New York ha dedicato una grande retrospettiva a Giorgio Armani, ma in questi giorni sia alla Tate Britain che alla Tate Modern di Londra sono aperte due mostre sulle creazioni di Alexander McQueen fotografate da Nick Waplington e su Sonia Delaunay. E al Grand Palais di Parigi è di scena JeanPaul Gaultier.
Guardava la sua frutta rossa della Provenza e Paul Cézanne si rodeva: «Perché non riesco a raggiungere l’intensità che si dispiega davanti ai miei sensi?». Eppure aveva a disposizione molti più pigmenti rispetto ai rinascimentali. Ma non gli bastava: la modernità cercava la compenetrazione perfetta tra quello che si vede e quello che si sente, e il colore-materia era lontano, mentre la forma era ancora lì, con le sue regole.
Wasilij Kandinski le farà a pezzi con la sua rivoluzione cromatica, una corsa inquieta verso l’astrazione che si nutriva di radici antiche, ben incastonate nei suoi Urali — sagome imprecise di cavalli e cavalieri, sciamani che sembravano dissolversi nella notte. Bene, ma poi è arrivato Paul Klee. Tensione spirituale tra spazio e colore, quel momento altissimo in cui quello che si vede è anche quello che si sente. «Il colore si è impadronito di me; non devo più dargli la caccia. So che mi tiene in pugno per sempre», annota Klee nei suoi appunti.
Sia lui che Kandinsky però sono stati parte del Bauhaus, la scuola d’arte fondata a Weimar nel 1919 dall’architetto Walter Gropius e chiusa poi a Berlino nel 1933. La «casa del costruire», come è scritto sin dal nome, perfetta sintesi tra teoria e pratica, artigianato e sapere. Dunque, la grande astrazione del secolo scorso è nata da questa felice armonia tra il fare e il pensare. E anche il terreno nel quale è fiorita la ricerca di Ottavio
Pensiero e azione Le idee di Ottavio nel solco dell’architettura razionalista e del «tessuto» economico