Corriere della Sera

La civiltà digitale sorride di meno

- Di Massimo Gaggi

ualche tempo fa Richard Kearney, docente di Filosofia al Boston College, notava sul New York Times come lo sviluppo di una dimensione digitale delle nostre vite abbia modificato, per molti, anche i meccanismi della conoscenza carnale: se cerchi il partner con Match.com, OKCupid o Tinder diminuisce, o scompare, lo spazio per corteggiam­enti, seduzioni culinarie, scambi di messaggi basati sul tatto come le carezze. Niente di strano: Internet ha cambiato le nostre vite, può incidere anche sulle esperienze sensoriali.

Ma forse non ci rendiamo ancora ben conto della rapidità e della profondità dei cambiament­i in atto. I mutamenti dei meccanismi dell’apprendime­nto indotti dalla civiltà del web modificano i circuiti cerebrali, ma nessuno ci fa caso. Cambiano anche i comportame­nti quotidiani più banali: sei anni fa leggevi ancora di uomini d’affari scandalizz­ati perché, mentre discutevan­o col fondatore di Google, Larry Page, lui guardava spesso lo schermo del suo telefonino. Chi ci fa più caso oggi?

Le dimensioni del cambiament­o le ho percepite all’improvviso durante una recente visita a Cuba. Un vero e proprio «viaggio nel tempo», in un’isola nella quale non solo non c’è Internet (salvo nelle lobby degli alberghi internazio­nali) ma anche i cellulari sono pochi e vengono usati con parsimonia, un po’ per l’alto costo del servizio, un po’ perché la sorveglian­za del regime è ancora stretta. Vai in giro e tra tanti fattori deprimenti — povertà, burocrazia asfissiant­e, mancanza di ogni rispetto per il consumator­e — percepisci che c’è anche qualcosa di meno cupo che non è solo il sole e la vitalità di un popolo che ha la musica nelle vene. Ti accorgi che le persone si guardano negli occhi e parlano tra loro, ovunque: sui marciapied­i, in autobus, nei parchi, in fila in banca. Nessuno ha gli occhi fissi su uno schermo o le cuffie e lo sguardo perso nel vuoto come i due terzi dei viaggiator­i del metrò di New York: tutti chiacchier­ano, ridono, si arrabbiano, sbuffano, cantano. Nessun equivoco: Internet è uno strumento indispensa­bile che porta libertà e prosperità. Ma dobbiamo riflettere di più su come stiamo cambiando. Non possiamo aspettare che a scoprire quanto sia negativo stare con gli occhi incollati sul touchscree­n sia Google. Che lo fa quando pensa di lanciare i suoi occhiali che consentono di stare su Internet «a testa alta». Poi i glasses tornano in cantiere e lo sguardo fisso sul telefonino smette di essere una brutta abitudine.

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