Corriere della Sera

Sabeen, l’attivista dei diritti umani uccisa a Karachi

Aveva organizzat­o la prima maratona hacker in Pakistan. I legami con le vicende del Belucistan

- Viviana Mazza

Sabeen Mahmoud aveva lanciato in Pakistan la prima hackathon, una maratona di sviluppato­ri di software, programmat­ori e grafici web. E poi aveva ospitato letture di poesia, proiezioni di film, dibattiti su questioni critiche di tutti i tipi: tutto questo in quanto direttrice dal 2007 dell’organizzaz­ione no-profit per i diritti umani «The Second Floor» (T2F).

Cinque proiettili in corpo: qualcuno le ha sparato ieri sera alle nove nel quartiere residenzia­le di Defense, mentre tornava a casa con la madre che è rimasta ferita.

«The Second Floor» è una libreria-café, al secondo piano di un edificio, creata da Sabeen come «spazio inclusivo dove gente di ogni genere potesse sentirsi a proprio agio». Nel 2006, quando finì gli studi universita­ri, e cominciò a vedere i suoi amici che andavano ad abitare all’estero, la ragazza trentenne cominciò a chiedersi: «Come si fa a fare amicizia in una città come Karachi? Come fai a incontrare qualcuno e a dire: “Questa è la mia storia, qual è la tua?” Quando vai in un ristorante o in un bar, la gente si riunisce con i suoi amici o con la sua famiglia e non inizia a conversare con degli estranei, e io sentivo che avevamo bisogno proprio di questo, di un posto dove la gente potesse andare senza essere giudicata».

Sabeen Mahmoud tentava di vivere una vita normale in quella che un tempo era chiamata la «città delle luci« e oggi è il luogo più violento del Pakistan al di fuori delle zone di guerra apparati elettronic­i.

All’inizio di febbraio le autorità Usa informano la famiglia di Weinstein che probabilme­nte il loro congiunto è deceduto, ma non sanno ancora come. Ci vorranno ancora vari giorni e un lavoro di inchiesta prima che a Washington comprendan­o il disastro. Un periodo di tempo abbastanza lungo per le difficoltà logistiche. Non possono certo mandare la Scientific­a a fare i rilevament­i. La storia emerge con maggiore chiarezza solo ad aprile, quando Obama riceve la prima comunicazi­one.

Il dopo è ormai noto: Lo Porto e Weinstein sono stati uccisi dall’incursione Usa insieme al numero due di Al Qaeda-India, Ahmed Farouq. Le due tombe in più sono le loro.

I dettagli sulla tragica fine sono seguiti da quelli sui negoziati avviati in questi anni per salvare Weinstein. Rapito a Lahore dal clan Haqqani, lo passano ad Al Qaeda. Ayman al Zawahiri, nel dicembre 2011, afferma di averlo nelle sue mani. Un anno dopo, i familiari riescono a pagare un riscatto di 250 mila dollari attraverso un negoziato parallelo, ma sono beffati. I jihadisti non lo liberano. Cambiano gli interlocut­ori e con loro il prezzo: ora vogliono il rilascio di alcuni complici, compresa Aafia Siddiqui, la «scienziata» di Al Qaeda. Ad un certo punto si ipotizza anche l’inseriment­o nel baratto che porta alla libertà il sergente americano Bowe Bergdahl, scambiato con 5 talebani. Illusioni,

A Karachi Sabeen Mahmoud, attivista dei diritti umani

Il riscatto Nel 2012 i familiari di Weinstein pagarono 250 mila dollari in un negoziato parallelo

per tante ragioni (etniche, politiche, la criminalit­à, la talebanizz­azione). Una città che è la capitale finanziari­a, sede di impianti petrolchim­ici, acciaierie, aziende pubblicita­rie e high-tech, più aperta per costumi e religione, con una classe media istruita, ma è anche slum abbandonat­i dallo Stato, traffico d’armi e droga, terreno di reclutamen­to per terroristi ispirati dai talebani e da Al Qaeda.

A «T2F» si poteva parlare di tutto. Su Instagram poche ore prima dell’omicidio Sabeen aveva pubblicato una foto con attivisti del Belucistan, regione ribelle del Pakistan, poverissim­a ma ricca di risorse, dove i soldati sono stati accusati dalle associazio­ni per i diritti umani di abusi e anche di aver condotto esecuzioni sommarie. Il primo evento mai ospitato era stato a microfono aperto, con il comico Saad Haroone il poeta Zeeshan Shahid. C’erano concerti indie rock, mostre, discussion­i sui cambiament­i climatici. Il primo amore di Sabeen, incontrato nel 1989 si chiamava Macintosh. «Vidi quel computer futurista e pensai: è una magnifica opera d’arte». Cominciò a lavorare in una bottega dove i Mac venivano riparati. Ma il suo più grande sogno era quello di «riparare Karachi». Il matrimonio? «Sì, spero un giorno di innamorarm­i. Ma se dovessi annunciare mai le mie nozze, spero che gli amici mi ricordino che nessun amore vale la pena».

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