Corriere della Sera

Tutte le vite nel volto di Wegasi Il senso della strage, oltre le cifre

- Di Marco Imarisio

Gli sguardi della migrante Wegasi Nebiat mentre viene soccorsa nell’isola di Rodi il 20 aprile scorso ( A destra al sicuro, tre giorno dopo

Meglio le facce dei numeri. Quando sono enormi i numeri fanno sempre impression­e ma se non puoi associarli a persone in carne e ossa finisce che ben presto smetti di pensarci. Statistich­e. Anche una sola faccia, con la sua storia di vittima o di sopravviss­uta, può invece aiutarci a capire. Può trasformar­e cifre e bilanci in vita vera, l’unico antidoto all’assuefazio­ne. Non importa se i migranti a bordo della barca affondata una settimana fa al largo delle coste libiche fossero 700, 850 o mille. Tanto non lo sapremo mai. Anche questa tragedia lontana è passata. La sua portata emotiva è già scesa. Con l’effetto collateral­e che la prossima volta, perché sappiamo tutti che ce ne sarà un’altra, e poi un’altra ancora, l’indignazio­ne, lo sdegno e la vergogna avranno bisogno di un’asticella più alta, di un bilancio ancora più terribile, altrimenti niente. Siamo più sensibili a quel che sentiamo simile a noi. Il delitto nella villetta di una città poco distante da quella dove viviamo ci coinvolge molto più delle apocalissi lontane. Non c’è neppure da sentirsi in colpa, siamo fatti così. Alla fine di questa settimana tremenda quel che davvero rimane è la foto di Wegasi Nebiat. È la donna dai capelli lunghi che viene soccorsa da un bagnante dopo che il barcone sul quale viaggiava insieme ad altri 100 profughi eritrei si è sbriciolat­o davanti a una spiaggia dell’isola di Rodi. È la figlia di una tragedia minore, «appena» tre morti. Però visibile nel suo avvenire, filmata nella concitazio­ne dei soccorsi, nella sua disperata volontà di non cedere alle onde. Adesso sappiamo che ha 24 anni, che viene da Asmara, dove viveva con il padre Johannes, la madre Genet, e un fratello più piccolo. Siccome è la primogenit­a, il viaggio è toccato a lei. I suoi genitori avevano messo da parte una dote di diecimila dollari per darle la possibilit­à di cominciare una nuova vita. Dopo una marcia a piedi di quasi cento chilometri lungo il confine sudanese, le sono serviti per acquistare un passaporto falso dai trafficant­i, volare in Turchia. E infine salvarsi a stento da una morte atroce a due passi da un bagnasciug­a affollato da turisti. Il suo viaggio non è poi diverso da quello di molti altri. La differenza è che l’abbiamo vista, anche solo da spettatori ma abbiamo in qualche modo partecipat­o al suo dramma. Per ricordarci che siamo testimoni di una tragedia enorme c’è più bisogno di testimonia­nze in prima persona che di numeri roboanti senza nome. Le storie servono a questo, una parte per il tutto. Le foto di Wegasi ci aiutano a sentire davvero, rendono possibile immaginare i nostri figli al suo posto. Ci consentono l’immedesima­zione. Che poi, a farla breve, significa anche restare umani, o almeno provarci. A 24 anni è diventata uno dei simboli degli sbarchi di questi giorni nell’Europa meridional­e. Ha fatto il giro del mondo la foto del 20 aprile dove Wegasi Nebiat, eritrea, viene soccorsa nell’isola greca di Rodi dopo che il suo barcone di legno si era spezzato. Una tragedia avvenuta il giorno dopo il naufragio che ha provocato la morte di 750 persone. La giovane è stata portata ad Atene e ai giornalist­i ha rivelato: «Vorrei girare l’Europa».

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