Messaggi da tutto il mondo Putin e Hollande alla cerimonia
dal nostro inviato
Storia, memoria, ma anche necessità della politica e desiderio di dare un senso compiuto agli orrori del passato. Sono le centinaia di migliaia di nontiscordardimé fatti di carta, tessuti colorati e distribuiti dai giovani nelle strade, le piazze, i grandi magazzini, al bagno di folla del concerto rock dei «System of a Down», ai convegni di studiosi e le cerimonie ufficiali ieri al «Museo del Genocidio», a segnare con forza nel viola sgargiante dal cuore giallo la necessità di ricordare. Gli organizzatori per il centenario di quello che in armeno viene chiamato meds yeghern, il «grande crimine», o «catastrofe» — termine simile a quello di Shoah che indica l’Olocausto degli ebrei — li hanno adottati a simbolo delle commemorazioni.
«Non dimenticare», «riparazioni», «riconoscimento del grande crimine», sono le parole più ripetute tra le decine di migliaia arrivate da tutto il mondo. La vera forza del popolo armeno. Circa tre milioni risiedono nello Stato dell’Armenia. Hanno vissuto 70 anni di regime sovietico sino al 1991, patito le incertezze della guerra contro gli sciiti del Nagorno Karabakh nel 1993-95 e poi il timore dell’invasione turca; hanno sofferto la povertà di questo Paese dove lo stipendio medio non supera i 200 euro mensili, e oggi sono vittime di oligarchi corrotti. Gli altri, almeno sette milioni, risiedono per lo più in Europa e soprattutto negli Stati Uniti.
Non esiste un «sionismo» armeno. Non hanno il mito del ritorno alla terra dei padri. «Ciò che chiediamo è specialmente che la Turchia riconosca le sue colpe», sosteneva due giorni fa di fronte alla «fiamma della memoria», nel cuore del monumento e del museo al genocidio sulla collina che domina Erevan, il 55enne Kevork Ucarian, residente a New York. «I miei genitori, come tanti bambini sopravvissuti, si conobbero all’orfanotrofio di Istanbul negli anni Venti. Tutta la loro famiglia era stata massacrata dai turchi assieme alle bande curde. Non avevano neppure una fotografia dei loro cari. Mi raccontarono pochissimo. Non tornarono mai neppure a Sebastia, il villaggio tra l’Ararat e il lago Van dove erano nati. L’ho visitato io da solo, quando nel 1988 andai come volontario per aiutare le vittime del grave terremoto che sconvolse quelle zone».
Una storia tra le infinite. Gli armeni stanno ancora documentando, raccogliendo le prove della vastità della loro tragedia. «Furono almeno un milione e mezzo di morti. Gli attacchi ottomani avvennero per lo più nelle province isolate e povere dell’altopiano anatolico, verso la Siria dove oggi impera il Califfato jihadista. Quasi non c’erano macchine fotografiche. I testimoni che potessero raccontare al mondo occidentale erano pochissimi. I negazionisti islamici ebbero dunque vita facile. Per questo sin dal 1955, due anni dopo la morte di Stalin, mi sono messa a raccogliere le voci dei sopravvissuti», dice Verjine Svazlian, nata a Istanbul nel 1934, autrice di una ventina di libri e oggi considerata un vero archivio vivente. «Noi non chiediamo soltanto che la Turchia ammetta quei crimini. Vogliamo anche essere ripagati, come la Germania ha fatto con gli ebrei. E c’è chi vorrebbe estendere i confini dell’Armenia a quelli delle vecchie province occidentali, che arrivavano alla Siria e al Mediterraneo», aggiunge. Deportati Civili armeni in marcia sotto gli occhi di un soldato turco. A partire dal 24 aprile 1915, circa 1,5 milioni di persone furono uccise o lasciate morire di stenti
Il tema scotta. La sua dimensione di stretta politica internazionale è tornata d’attualità ieri durante le commemorazioni del centenario. Agli occhi del presidente Recep Tayyp Erdogan chiunque sposi la versione degli armeni diventa nemico della Turchia.
La tesi di Ankara è infatti che le vittime siano state molte meno, che non ci fosse un piano di metodico sterminio e soprattutto che gli armeni si siano alleati con la Russia al momento
Paese rifugio In Armenia si sono rifugiati 13.000 cristiani siriani di Aleppo braccati dall’Isis