Corriere della Sera

Il prete antifascis­ta che benedì i corpi in piazzale Loreto

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Non avrebbero accettato ordini, da nessuno. A lui però — quando disse «tirate giù quelle salme, o vengo a prenderle con il cardinale» — diedero retta. Perché a chiedere di calare i corpi di Benito Mussolini, Claretta Petacci e degli altri gerarchi appesi in piazzale Loreto, il 29 aprile 1945, non era un prete qualunque. Era lo stesso Giovanni Barbaresch­i che otto mesi prima, il 10 agosto del 1944, era corso da Schuster raccontand­ogli di quei partigiani fucilati dai fascisti e lasciati lì, ammucchiat­i, sempre in piazzale Loreto. «Vada lei a impartire la benedizion­e a mio nome», gli disse il cardinale, autorizzan­dolo benché fosse ancora diacono. E lui, appena 22enne, andò, benedì, ricompose i corpi, cercò biglietti da consegnare ai familiari.

In mezzo a quei due viaggi a piazzale Loreto, il 25 aprile: di cui don Giovanni dice oggi che «non si può raccontarl­o, si venne e si viene travolti dall’emozione di quel giorno». Dentro a quei viaggi, l’intensità di un uomo — «uno scout diventato prete», si definì in una conferenza di qualche tempo fa — che agli studenti che chiedevano, a lui prete, che cosa fosse la cosa più importante di tutte rispondeva scrivendo sulla lavagna, a caratteri cubitali: la libertà.

Quarto figlio di una famiglia antifascis­ta, scout clandestin­o nelle Aquile randagie, redattore del Ribelle — rivista per la quale persero la vita un tipografo e il partigiano Teresio Olivelli — divenne sacerdote il 13 agosto 1944: e il giorno della prima messa fu arrestato e portato a San Vittore — V raggio, cella 102 — per aver aiutato la fuga di alcuni ebrei. Non era la prima volta: aveva falsificat­o tremila documenti e facilitato l’espatrio di duemila tra «ebrei, militari che non volevano aderire alla repubblica di Salò, soldati fuggiti dai campi di concentram­ento». Da un campo — quello di Fossoli — fuggì anche lui; non sfuggì invece ai carcerieri che, nei 72 giorni passati a San Vittore — gli fracassaro­no un braccio perché si era rifiutato di fare i nomi dei suoi compagni.

Dopo la Liberazion­e, Schuster gli chiese — a lui, così profondame­nte antifascis­ta — di adoperarsi per evitare rappresagl­ie: e fu lui a salvare la vita, tra gli altri, al colonnello delle SS Eugene Dollman. Monsignor Giovanni è poi stato insegnante, è stato premiato con l’Ambrogino d’Oro, è divenuto uno dei Giusti delle Nazioni. «Il fascismo», ha detto, «non è solo una dottrina o un partito. È un modo di vivere nel quale ci si arrende e ci si piega per amore del quieto vivere, o della carriera». La sua preghiera, la preghiera «dei ribelli per amore», è ancora «al Dio verità e libertà», perché ci faccia «liberi e intensi».

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