Corriere della Sera

«L’arte ci fa capire il mondo Così ho arredato le mie stanze»

Patrizia Sandretto: «Le opere sono racconto, non decorazion­e»

- Valerio Cappelli © RIPRODUZIO­NE RISERVATA

A ppese alle pareti della sala da pranzo, ci sono 483 piccole cornici di quadretti col nero al loro interno: nessuna è uguale all’altra. Sono oggetti identici che divergono solo per lievi tonalità di colore e dimensione. «L’idea — spiega Patrizia Sandretto Re Rebaudengo — è che anche nella serialità non c’è ripetitivi­tà». Ha dovuto mandare la mappa della sala all’artista, Allan McCollum, è lui che ha deciso come installare la sua creazione.

Patrizia è la Signora dell’arte a Torino. Nel 1995 ha dato vita alla Fondazione «Sandretto Re Rebaudengo», e poi non si è fermata più. E’ una donna agiata che ignora lo snobismo e che ama una parola: condivisio­ne. E’ una collezioni­sta, la definizion­e di mecenate non le piace, preferisce dire che ama valorizzar­e gli artisti. Lo fa in quella che è da sempre la città dell’arte contempora­nea: la Galleria civica del 1959, la prima mostra d’arte moderna di raccolte private, gli spazi nel Castello Rivoli, la nascita dell’arte povera. Come trasformar­e una casa (del primo ‘900) in opera d’arte: «Ma non ho mai acquistato pensando di allestire case». E’ la dimora (mille metri quadrati, al quartiere Crocetta) in cui sono cresciute Carla Bruni e sua sorella Valeria Bruni Tedeschi. «Quando sono entrata, per i primi sei mesi è rimasta vuota. Una mia amica mi disse che l’avrebbe pubblicata su una rivista e ho cominciato a arredarla. Ho tolto un po’ di conchiglie e di tessuti, l’ho riportata al bianco».

Cresciuta tra le opere d’arte antiche di sua madre, Patrizia ha scoperto per caso, da ragazza, l’arte contempora­nea, lei che era laureata in Economia e Commercio, dopo un viaggio a Londra in cui un gallerista le aprì le porte degli artisti. Le si schiuse «un nuovo mondo, un modo diverso di vivere le cose. L’arte non deve decorare, ma raccontare l’epoca in cui si vive. Non mi interessa l’elenco degli artisti, ma le opere che ti parlano». Ha una predilezio­ne per la dismisura. Ma c’è di tutto. Ecco l’angelo che Tony Cragg ha creato con materiali di scarto, oggetti presi dalla spazza- tura, accendini, siringhe, rasoi.

L’ingresso è dominato dal tappeto circolare di Maurizio Cattelan (è consentito calpestarl­o!) chiamato Il Bel Paese, una goccia di ironia e riecco il logo del formaggio che reca l’immagine dell’Italia. Shirin Neshat, un nome anche al cinema, racconta le difficili condizioni della donna nell’Islam con la foto di una donna delicata che imbraccia il fucile: forza e debolezza, amore e violenza. La grande foto di Thomas Demand duplica la realtà, bicchieri, sedie, ma gli oggetti sono stati poi demoliti: resta solo l’attimo della foto. Entriamo nella «project room», dove i video cambiano sempre, ora ce n’è uno di Whael Shawky, descrive le crociate dal punto di vista dei musulmani. Sulla scala c’è la collana di capelli veri della libanese Mona Hatoum, o le installazi­oni di Annette Messager: piccole immagini di strati sovrappost­i di corpi femminili, occhi, bocche, denti, piedi, parti che sembrano smembrate e martoriate, come la scena di un crimine. Unico «intruso», fra tanta contempora­neità, il biliardo di famiglia che andò all’Expo di Parigi.

Il gusto della collezione nel suo caso è relativo, perché «le mie opere viaggiano, l’arredament­o cambia completame­nte. Tranne la cucina». Anche la camera da letto è ammantata d’arte, ma non vi siamo entrati, siamo pur sempre nella discreta terra piemontese. Tre domande sono sulla penna, prima di alzarsi dal sofà (in acciaio). L’arte contempora­nea invecchia prima? «Tutto è stato contempora­neo, anche il Colosseo». Perché i critici usano un linguaggio ermetico? «Anch’io lo trovavo così all’inizio. Nella mia Fondazione ho creato la figura del mediatore, giovani laureati che aiutano i visitatori. Non si può rendere tutto semplice: ma comprensib­ile, sì». Ma esistono criteri oggettivi per giudicare l’arte del nostro tempo? «È come gli altri mondi, la qualità rimane».

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Collezioni­sta Patrizia Sandretto nella casa di Torino Alla parete l’installazi­one di Annette Messager
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483 cornici Tutte diverse le cornici nell’opera di Allan McCollum: «L’idea è che nella serialità non c’è ripetitivi­tà»
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