Il nomade Liguori che con il jazz fa la rivoluzione «L
a rivoluzione è sempre la stessa, i buoni contro i cattivi: bisogna solo vedere quali sono i buoni». Si apre con una citazione del regista Richard Brooks ( I professionisti, 1966) uno dei capitoli dell’autobiografia di Gaetano Liguori, pianista «contro» per definizione, da sempre impegnato oltre il senso banale dell’aggettivo. Perché negli oltre 60 anni di vita che percorre — titolo nerudiano: Confesso che ho suonato, scritto con Agostino Matranga, (Skira, pagine 224, € 16 ) la costante è proprio quella della ricerca d’una rivoluzione: politica, ma insieme musicale, filosofica, geografica. Tanto che quando cominciò a rendersi conto che la rivoluzione vagheggiata da ragazzo non si sarebbe mai concretizzata qui, ebbe inizio la ricerca altrove, dove l’avverbio non significa solo luogo, ma cultura, persone, entusiasmo. Sono le chiavi per viaggiare con lui dal Corvetto milanese al Nicaragua, dal Conservatorio ai centri sociali, dalle macerie di guerre dimenticate ai grand hotel d’Oriente, traversando miti e ricordi.
La prima tappa porta nel ’57 la famiglia Liguori da Napoli a Milano: il padre Lino, batterista, seguiva la musica nella capitale dell’industria discografica; Gaetano cresce così a pane e batteria, ma quando a casa arriva un piano è il primo vero amore. Scuola così così fino a quando aprono le medie al Conservatorio. E si comincia: la stagione del beat, gli studi sulla tastiera, lo scoppio della contestazione. Sembrano un lampo, quegli anni; ma è accaduto di tutto: la politica e le manifestazioni, le rivolte nere americane e il free jazz (ah, Cecil Taylor!). E poi Stockhausen, la classe di musica elettronica. Al debutto su un palco Gaetano si eccita al punto da sentire la febbre a 40. Arrivano i primi ingaggi, la nascita del Gruppo Contemporaneo e poi l’Idea Trio; insieme, nella stessa estate, l’impiego al club vacanze e il Teatro Romano di Verona subito dopo Miles Davis. Il jazz si coniuga sempre più a sinistra, i concerti si fanno in aule e fabbriche occupate. Il primo disco s’intitola Cile libero Cile rosso, gli impegni aumentano e arrivano anche la docenza al Conservatorio e la trasferta a Cuba per il Festival mondiale della gioventù comunista (capo delegazione un certo Massimo D’Alema, 29 anni). Sembra una stagione destinata a non finire, ma sappiamo che non andò così. Gli anni Settanta si chiudono con il concertone per aiutare Demetrio Stratos malato, che fu invece preceduto dalla notizia della sua morte.
Poi «si cominciava a parlare di riflusso» e Liguori ne prende atto, ma non demorde. Il racconto, tra citazioni western e garbati accenni alla (frizzante) vita sentimentale, amplia gli orizzonti. La rivoluzione non si fa più qui? Vado a cercarmela. Ecco, dopo una parentesi indiana e l’avventura in prosa con Dario Fo, il richiamo dell’Eritrea, il Fronte Polisario nel Sahara, l’impegno in Senegal, l’epopea sandinista in Nicaragua, Sabra e Chatila. Tutto in prima persona, mica cartoline. Poi succede che un giorno capisci che tu non sei cambiato (ma forse un po’ anche sì) e comunque senti il bisogno di saperne di più. È l’ora in cui i sentieri portano a psicologia e spiritismo, meditazione e frequentazioni coi gesuiti.
Un percorso frenetico ma non forsennato, quello di Liguori. Contagioso perché anche chi non ne condivida idee e passioni, resterà affascinato dalla sua inscalfibile coerenza. I veri rivoluzionari non si riconoscono dalle battaglie vinte o perse, ma dalla tenacia (e dall’autoironia) con cui inseguono i propri sogni.
apensa@corriere.it