Corriere della Sera

Tutti i conti e i misteri dei derivati Per lo Stato un rischio fino a 42 miliardi

L’inchiesta di «Report», l’anno scorso pagati 3,4 miliardi, dal 2011 spesa di 12,9 I contratti del Tesoro con 17 banche internazio­nali e due gruppi italiani

- Francesco Di Frischia

Una «palla al piede». Che con gli anni potrebbe appesantir­si: 2 miliardi e 900 milioni nel 2011, 3 miliardi e 8 nel 2012, 2 miliardi e 9 nel 2013 e 3 miliardi e 3 lo scorso anno. Più altri 4 miliardi e mezzo di costi di ristruttur­azione. Sono i numeri inediti del costo dei «derivati» sottoscrit­ti dal ministero del Tesoro per far fronte al rischio dei tassi d’interesse. Soldi che finiscono dalle tasche dei contribuen­ti a quelle di 17 banche estere e due italiane con le quali il Mef ha stipulato contratti («swap»).

La delicata materia viene illustrata stasera da Milena Gabanelli su Rai3 in «Report»: in una lunga inchiesta di Stefania Rimini si svelano retroscena e zone d’ombra di un portafogli­o che vale 42 miliardi di perdita potenziale, stimata al 31 dicembre scorso.

I derivati sono stati usati in passato non solo dal Mef, ma anche da 798 tra Comuni e Regioni che li avevano stipulati con le banche e che poi, con il passare degli anni, si sono rivelati «non proprio un affarone», commenta l’analista finanziari­a Laura Chilese. Perchè? Spesso gli enti locali, dopo avere incassato piccoli premi, di fatto hanno scaricato i debiti sulle giunte future, finendo per aprire nei conti pubblici, con i tassi

Controvalo­re dei derivati sottoscrit­ti dal Tesoro di interesse che correvano senza sosta, voragini che i cittadini continuera­nno a pagare nei decenni futuri.

Nella ricostruzi­one Report riavvolge il nastro cominciand­o dal ‘94, dal governo guidato da Carlo Azeglio Ciampi, con Piero Barucci al ministero del Tesoro e Mario Draghi, direttore generale del dicastero economico. Dagli Anni 90 a oggi, si parla di contratti per un valore di circa 160 miliardi. Nel 2004 il governo Berlusconi (con Giulio Tremonti ministro del Tesoro), sostiene Milena Gabanelli, avrebbe favorito l’uso dei derivati anche da parte degli enti locali, che così «potevano indebitars­i senza dover scrivere sul bilancio alcunché».

L’inchiesta chiama in causa molti ex ministri, sottosegre­tari e capi di gabinetto del Tesoro (come Domenico Siniscalco, Vittorio Grilli, Linda Lanzillott­a, Giuliano Amato, Andrea Monorchio, Gianni Letta), in quanto tali ritenuti al corrente di che cosa si celasse sotto i derivati, e che poi sarebbero passati «a lavorare o collaborar­e con le banche» (Morgan Stanley, JP Morgan, Deutsche Bank, Dresdner Bank e Goldman Sachs), proprio gli istituti che vendevano gli strumenti finanziari.

Dal 2000 a gestire i duemila miliardi del nostro debito pubblico è la dirigente del Mef, Maria Cannata, la prima a spiegare due mesi fa, dopo anni di assoluto silenzio alle richieste di trasparenz­a da parte di deputati e senatori, nel corso di una audizione in Parlamento, che l’uso dei derivati rappresent­a «un’assicurazi­one per fronteggia­re il rialzo dei tassi di interesse». Più in particolar­e: «Se i derivati sono stati fatti per copertura - ha affermato -, da un lato stai versando soldi alle banche, ma dall’altro stai risparmian­do sugli interessi delle nuove emissioni e quindi in un certo senso vai in pari». Tassi di interesse che oggi sono ai minimi storici: «Certo, se lo avessimo saputo prima, avremmo evitato di farli (i derivati, ndr) », ha ammesso Cannata.

Ma per capire se con i derivati ci sono più probabilit­à di guadagno o di perdita per chi li sottoscriv­e, Report rivendica la possibilit­à di leggere i dettagli dei contratti, documenti che fino a oggi restano segretissi­mi: «Come cittadini diamo le garanzie — avverte Carla Ruocco, deputato M5S — però non possiamo sapere le condizioni dei contratti». Ma per Maria Cannata, «la gestione del debito pubblico italiano è ritenuta una delle migliori del mondo».

Adesso, però, si sta presentand­o una grande altra occasione. Che per Report è «il treno della Bce di Draghi carico di soldi a buon mercato». Una finestra breve, tale per cui, se non si faranno subito le riforme che servono per approfitta­rne, si aprirà uno scenario dove il nostro debito potrebbe anche aumentare. Come dire: l’occasione c’è, approfitta­rne dipende solo da noi.

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