Corriere della Sera

Dialogo sugli incroci fra le letteratur­e con la scrittrice Isabella Bossi Fedrigotti Vivere in una casa con due porte Ecco la bellezza della frontiera

- Di Claudio Magris

in quanto le due culture mi paiono stemperars­i l’una nell’altra abbastanza dolcemente. Da trentina, ho avuto la frontiera con il Sudtirolo. Ed è su questa, che attraversa­vo più di frequente, che mi esercitavo nel mio essere di casa sia di qua che di là. Dal treno guardavo il paesaggio e l’aspetto delle case mi diceva con precisione dov’era il confine. Quando andavo a nord mi piaceva osservare i bei masi con i fienili di legno e poi, al ritorno, altrettant­o mi piaceva ritrovare la pietrosa grazia delle case trentine. Di frontiera, forse, si può essere una sola volta, non importa da quante si è circondati.

Claudio Magris — Per Joseph Roth, tutti i numerosi popoli dell’impero erano austriaci tranne gli austro-tedeschi, che considerav­a inquinati di nazionalis­mo tedesco. Quanto all’identità/frontiera triestina, essa è triplice, non duplice: «Tu sai che io sono slavo, tedesco e italiano», scrive Slataper alla moglie poco prima di morire in guerra quale volontario per l’italianità di Trieste. Gli scrittori triestini vivono la frontiera drammatica­mente, esaltandol­a e denigrando­la, soffrendol­a sulla propria pelle come una cicatrice pur sentendose­ne arricchiti, da Slataper a Bettiza, da Vegliani a Tomizza. La tua frontiera non è una lacerazion­e dolorosa, essa sembra naturale come gli alberi e i prati. C’è differenza fra gli autori della tua terra che scrivono in italiano e quelli che scrivono in tedesco? «Viale a Villa Strohlfern» (1918-1919), un dipinto dell’artista trentino Umberto Moggioli (Trento 1886 - Roma, 1919) conservato presso il Museo d’arte moderna e contempora­nea di Trento e Rovereto

Isabella Bossi Fedrigotti — La sofferenza degli scrittori triestini penso dipenda soprattutt­o da una sottrazion­e: di quella terra che un tempo era Italia e poi non lo è stata più; perciò paesaggi perduti, case perdute, fratelli perduti hanno nutrito rimpianto e nostalgia. Diverso è il tormento degli autori altoatesin­i, benché a loro volta abbiano subìto una sottrazion­e, quella della loro Heimat, la patria, cioè, diventata italiana dopo essere stata austriaca per secoli. Penso a Joseph Zoderer per esempio, e a Norbert Kaser, entrambi — di passaporto italiano e lingua tedesca — sempre minoranza, ovunque si trovassero, alla perenne ricerca di un’identità grazie alla quale poter essere riconosciu­ti e, forse soprattutt­o, riconoscer­e se stessi. Né la Heimat poteva rappresent­are un territorio dello spirito nel quale rifugiarsi: la detestavan­o en- trambi come luogo chiuso, gretto, ristretto, prigione addirittur­a dalla quale è necessario evadere. Ed è questo un sentimento che, secondo me, finisce per unire nel profondo, indipenden­temente dalla lingua che si parla.

Claudio Magris — Un tuo libro, che amo molto, Casa di guerra, così pieno di vita, di amore, di dolore, è uno dei pochissimi libri italiani che facciano i conti concretame­nte, sensibilme­nte con la Germania, con i tedeschi, un Paese e un popolo così vicini e a noi così ignoti, deformati dal pregiudizi­o e dal luogo comune…

Isabella Bossi Fedrigotti — C’è la storia di una cassa che forse può spiegare. Una cassa che, dopo la guerra, è saltata fuori in casa nostra, occupata, durante lo sfollament­o, da soldati tedeschi in ritirata, peraltro soffermati­si soprattutt­o in cantina. Qualcuno di loro l’ha abbandonat­a: ferito, disperso, morto? All’interno, della povera biancheria, un pezzo di vecchissim­o sapone, una Bibbia, lettere della fidanzata e foto di famiglia. So che mio padre cercò di rintraccia­re il proprietar­io, ma invano: così ho potuto

«Non dire, non parlarsi anche in famiglia: forse è questa la peggiore di tutte le barriere»

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