«Scendo a piedi da 4.400 metri, l’elicottero serve a chi sta male»
«Sino a due giorni fa volevo salire a tutti i costi. Avevo già allestito in solitaria due campi alti sul ghiacciaio, attendevo l’arrivo di una spedizione spagnola per tentare assieme gli 8.167 metri della cima del Dhaulagiri. Ora la priorità è rovesciata: cerco di scendere con le mie forze. Vorrei non pesare sui soccorsi, soprattutto non distogliere elicotteri ed energie alle squadre impegnate nell’aiuto alle popolazioni e alle centinaia di alpinisti in emergenza nella zona dell’Everest».
Il satellitare di Marco Confortola ha le batterie semiscariche, ma la voce arriva distinta dalla tendina piantata nella neve ai 4.400 metri del campo base di questo monte gigantesco nel settore centro-occidentale dell’Himalaya nepalese.
«La situazione è seria, ma non disperata. Qui al campo con i portatori e il mio sherpa d’alta quota abbiamo cibo per un mese, possiamo aspettare. Vorrei capire quale sia la via più sicura per scendere. A valle regna la confusione: nessuno conosce lo stato delle strade, si parla di valanghe e frane che le avrebbero devastate e continuerebbero a minacciarle, ci sarebbero ponti caduti o pericolanti», raccontava ieri sera, mentre sulla tenda picchiettava la neve e lui si apprestava a entrare nel sacco a pelo nella speranza che qualche ora di bel tempo oggi possa ricaricare le batterie alimentate dai pannelli solari. È abituato alle situazioni difficili Marco. Nato nel 1971 a Valfurva, in Valtellina, ha già salito 8 dei 14 ottomila sulla Terra. La sua carriera ha visto situazioni complicate e anche spiacevoli, come le polemiche sulla sua versione dei fatti che nell’estate 2008 lo videro coinvolto nelle serie di incidenti che causarono undici morti sui pendii sommitali del K2.
Allora lui subì congelamenti ai piedi che gli costarono dolorose amputazioni. Ne è uscito maturato, ancora innamorato delle grandi montagne, ma anche consapevole delle conseguenze gravi che può avere una decisione affrettata. «Sto valutando il piano di ritirata. Le scosse si susseguono ancora molto forti. Alcune hanno fatto cadere i bidoni del cibo nella tenda-mensa. La terra trema e qui in montagna significa crolli continui, anche nei luoghi dove meno te lo aspetti». Ieri ha accolto un belga che faceva trekking nella valle ed era rimasto disorientato. «Vorremmo raggiungere con una marcia forzata di 20 ore il villaggio di Jomsom. C’è un aeroporto, ma non è certo che funzioni. Dicono che anche la strada da lì a Kathmandu sia inagibile».