Corriere della Sera

Via dal servizio militare permanente: si entra a 16 anni, si esce quando si è vecchi

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L’Italia continua a chiedere un maggiore coinvolgim­ento degli organismi internazio­nali nella crisi. Alla vigilia della visita, Ban ha sottolinea­to che «non esiste una soluzione militare alla tragedia umana che sta avvenendo nel Mediterran­eo»

Il premier Renzi ha spiegato di voler far vedere «fisicament­e e plasticame­nte» a Ban Ki-moon che cosa sta facendo l’Italia. I mezzi italiani, insieme a quelli di Triton e ai mercantili privati, stanno affrontand­o l’emergenza partenze dalla Libia che ha già portato a superare la quota di 25 mila persone quest’anno

«Dolce vita»: è il marchio di certe camicie che si vendono in Eritrea. A produrle è una ditta italiana. Dà lavoro a oltre 500 persone. Fabbrica ad Asmara, capitale della nostra ex colonia da cui scappano duemila persone al mese, secondo le stime dell’Alto commissari­ato Onu per i Rifugiati. Una settantina al giorno. Non c’è luogo al mondo che non sia in guerra e che registri un esodo così massiccio e continuato. Sei milioni di abitanti. Il 20 per cento è già partito. Ma non sempre è arrivato. In 350 sono morti solo nell’ultimo naufragio.

Descriverl­a come una prigione a cielo aperto, la Nord Corea africana del dittatore un tempo marxista Isaias Afewerki, è un luogo comune. Così comune che diventa normale dimenticar­selo. Roma è la capitale che, tra mille difficoltà, vanta i migliori rapporti diplomatic­i con la linda Asmara dove i palazzi ricordano Latina e nei bar ti versano ancora il Punt e Mes in versione africana. Ragioni storiche, culturali. Il popolo eritreo è meraviglio­so. Ma in Eritrea la dolce vita è soltanto il marchio di una camicia.

Per questo Almas, 29 anni, è scappata con la figlia. Ha lasciato la sua terra coi genitori quando era piccola. È cresciuta in Sudan, alla periferia di Khartum, ha sposato un connaziona­le. Quando lui è morto, non sapeva come sfamare la bimba. Girava voce che in Libia si trovasse lavoro. Non sapeva che c’era il caos? «No, non lo sapevo — dice al Corriere —. Non avevo scelta». Il 15 novembre scorso, tratta con dei passeur e parte. «Quando ho superato il confine ho capito che c’era la guerra». I trafficant­i la portano ad Agedabia, in Cirenaica. Ma poi le dicono le strada è chiusa, impraticab­ile: deve andare a Tripoli. Lì trova lavoro come badante: «Ma non si poteva vivere, bombe e spari ovunque, faceva paura». Gli 800 dinari guadagnati li usa, allora, per pagarsi un passaggio in mare, assieme alla figlia. Almas dice che «i veri trafficant­i non si vedono», le persone con le quali ha trattato erano «aiutanti», parlavano il tigrigno, forse erano pure eritrei. In mare, racconta, è stata fortunata, un

Lavori forzati

giorno e mezzo di navigazion­e soltanto, a bordo di un gommone stipato di 200 africani, fino all’Italia, pochi giorni fa.

Cosa volete che sia, restare pigiati su un barcone, per chi magari ha sofferto la tortura dell’«otto». Altro nome italiano, come dolce vita. Nella posizione dell’otto, il torturato in Eritrea viene messo a faccia in giù sotto il sole cocente, mani e piedi legati dietro la schiena. Lo racconta al Corriere Mike Smith, al telefono da Sidney. Veterano della diplomazia australian­a, ha guidato la commission­e d’inchiesta Onu sull’Eritrea istituita dal Human Rights Council: 400 fuggiaschi (gli ultimi scappati dall’Eritrea a febbraio), 140 testimonia­nze scritte, rapporto finale presentato a Ginevra due mesi fa. La storia che gli è rimasta più impressa è quella di un giovane di 32 anni, che chiameremo Issa, incontrato in un campo profughi in Africa. «Un giorno i militari sono andati a prenderlo nel suo villaggio». Quel giorno è entrato nel meccanismo infernale

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