IL PROFESSOR VAROUFAKIS SI SENTE ROOSEVELT MA LA SUA STRATEGIA È SOLO UN «NO DEAL»
La battuta, per quanto spontanea, sarebbe scontata e ingiusta: No, professor Varoufakis, lei non è Franklin Delano Roosevelt. Ieri, dopo essere stato accusato da numerosi suoi colleghi europei di essere un «dilettante» e un «giocatore d’azzardo», il ministro delle Finanze greco ha reagito con un tweet in Rete che dice «FDR, 1936: “Sono unanimi nel detestarmi; e io do il benvenuto al loro disprezzo”. Una citazione vicina al mio cuore (& alla realtà) in questi giorni». Un po’ forte e un po’ presuntuosa, come affermazione politica. Soprattutto, non vera (in una certa misura non lo era nemmeno per il presidente americano del New Deal, d’altra parte).
Che Yanis Varoufakis abbia modi certe volte mal sopportati nelle riunioni dell’eurozona è vero: il suo tono da insegnante di Economia e l’approccio da materialismo storico in base al quale ritiene sarcasticamente di avere ragione per definizione ha irritato più di un ministro. Non risulta però che ci sia chi pensa che è impossibile fare business con lui per queste ragioni. Il problema è un altro: da quasi tre mesi, dice alcune cose e non le fa, promette riforme e liste di impegni e non mantiene. Le critiche gli arrivano per questo, oltre che per un approccio propagandistico del genere di quello del tweet di ieri. Ma nessuno lo odia. Se lo pensa, la sua è una presunzione da vanitoso. Se lo dice per fare supporre che tra la Grecia e i partner europei c’è un pregiudizio antiellenico insuperabile, mente e pone la questione in termini pericolosi.
Non risulta che nessuno, tra i membri dell’eurozona, voglia una rottura con Atene. Il problema, piuttosto, è che il governo guidato dal partito di Syriza non ha fatto passi per trovare un accordo, non fa proposte, non ha un programma di riforme vere. «No, signor Varoufakis, lei non sta proponendo un New Deal». Per ora, il suo è un No Deal.
@danilotaino Su Corriere.it Puoi condividere sui social network le analisi dei nostri editorialisti e commentatori: le trovi su www.corriere.it stento la Brigata ebraica ha ottenuto diritto di cittadinanza nel corteo del 25 Aprile a Milano. In altre città, per esempio a Roma, ha rinunciato a sfilare. Perché era sabato; ma non solo. Eppure, nel giorno della Liberazione, le bandiere con lo scudo di David dovrebbero essere accolte con gioia, sollievo, soddisfazione — e più di un rammarico, guardando al passato. Dovrebbero essere il cuore del corteo, non una componente al margine che occorre addirittura difendere contro offese e insulti.
In questi giorni c’è chi, per legittimarne la presenza, ha ripercorso la storia della Brigata ebraica, impegnata in operazioni civili più che militari, e di quei profughi che, dopo esser stati scacciati, tornarono in Europa per liberarla. Come non pensare a Enzo Sereni, ricordato dal presidente della Repubblica? E che dire del filosofo Hans Jonas che, dopo aver messo da parte i libri, combattendo attraversò l’Italia, per entrare infine in Germania? Certo la Resistenza è stata italiana; ma il suo valore fu internazionale, il suo afflato internazionalista.
Non si tratta, dunque, di una guerra di bandiere. E la questione è ben più complessa. Forse è venuto il momento di dire che quel che è accaduto al corteo del 25 Aprile, e che si era purtroppo già ripetuto negli ultimi anni, costituisce uno strappo nella sinistra, e più in generale nel mondo della politica e della cultura. Proprio perciò non si può consegnare l’episodio alla cronaca ed è invece necessaria una discussione, anche aspra.
Le bandiere con lo scudo di David non sono solo il simbolo della Brigata ebraica. Rappresentano anche il riscatto di un popolo contro cui la Germania nazista e l’Italia fascista hanno