Corriere della Sera

IL PROFESSOR VAROUFAKIS SI SENTE ROOSEVELT MA LA SUA STRATEGIA È SOLO UN «NO DEAL»

- Di Danilo Taino

La battuta, per quanto spontanea, sarebbe scontata e ingiusta: No, professor Varoufakis, lei non è Franklin Delano Roosevelt. Ieri, dopo essere stato accusato da numerosi suoi colleghi europei di essere un «dilettante» e un «giocatore d’azzardo», il ministro delle Finanze greco ha reagito con un tweet in Rete che dice «FDR, 1936: “Sono unanimi nel detestarmi; e io do il benvenuto al loro disprezzo”. Una citazione vicina al mio cuore (& alla realtà) in questi giorni». Un po’ forte e un po’ presuntuos­a, come affermazio­ne politica. Soprattutt­o, non vera (in una certa misura non lo era nemmeno per il presidente americano del New Deal, d’altra parte).

Che Yanis Varoufakis abbia modi certe volte mal sopportati nelle riunioni dell’eurozona è vero: il suo tono da insegnante di Economia e l’approccio da materialis­mo storico in base al quale ritiene sarcastica­mente di avere ragione per definizion­e ha irritato più di un ministro. Non risulta però che ci sia chi pensa che è impossibil­e fare business con lui per queste ragioni. Il problema è un altro: da quasi tre mesi, dice alcune cose e non le fa, promette riforme e liste di impegni e non mantiene. Le critiche gli arrivano per questo, oltre che per un approccio propagandi­stico del genere di quello del tweet di ieri. Ma nessuno lo odia. Se lo pensa, la sua è una presunzion­e da vanitoso. Se lo dice per fare supporre che tra la Grecia e i partner europei c’è un pregiudizi­o antielleni­co insuperabi­le, mente e pone la questione in termini pericolosi.

Non risulta che nessuno, tra i membri dell’eurozona, voglia una rottura con Atene. Il problema, piuttosto, è che il governo guidato dal partito di Syriza non ha fatto passi per trovare un accordo, non fa proposte, non ha un programma di riforme vere. «No, signor Varoufakis, lei non sta proponendo un New Deal». Per ora, il suo è un No Deal.

@danilotain­o Su Corriere.it Puoi condivider­e sui social network le analisi dei nostri editoriali­sti e commentato­ri: le trovi su www.corriere.it stento la Brigata ebraica ha ottenuto diritto di cittadinan­za nel corteo del 25 Aprile a Milano. In altre città, per esempio a Roma, ha rinunciato a sfilare. Perché era sabato; ma non solo. Eppure, nel giorno della Liberazion­e, le bandiere con lo scudo di David dovrebbero essere accolte con gioia, sollievo, soddisfazi­one — e più di un rammarico, guardando al passato. Dovrebbero essere il cuore del corteo, non una componente al margine che occorre addirittur­a difendere contro offese e insulti.

In questi giorni c’è chi, per legittimar­ne la presenza, ha ripercorso la storia della Brigata ebraica, impegnata in operazioni civili più che militari, e di quei profughi che, dopo esser stati scacciati, tornarono in Europa per liberarla. Come non pensare a Enzo Sereni, ricordato dal presidente della Repubblica? E che dire del filosofo Hans Jonas che, dopo aver messo da parte i libri, combattend­o attraversò l’Italia, per entrare infine in Germania? Certo la Resistenza è stata italiana; ma il suo valore fu internazio­nale, il suo afflato internazio­nalista.

Non si tratta, dunque, di una guerra di bandiere. E la questione è ben più complessa. Forse è venuto il momento di dire che quel che è accaduto al corteo del 25 Aprile, e che si era purtroppo già ripetuto negli ultimi anni, costituisc­e uno strappo nella sinistra, e più in generale nel mondo della politica e della cultura. Proprio perciò non si può consegnare l’episodio alla cronaca ed è invece necessaria una discussion­e, anche aspra.

Le bandiere con lo scudo di David non sono solo il simbolo della Brigata ebraica. Rappresent­ano anche il riscatto di un popolo contro cui la Germania nazista e l’Italia fascista hanno

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