«Aida» è splendida con il gesto efficace di Bignamini
Èandatain scena all’Opera di Roma, con trionfale successo, la prima Aida del dopo-Muti. Il grande concertatore, direttore a vita in tale teatro, avrebbe dovuto col titolo di Verdi aprire la stagione 2014-15; ha invece ceduto all’insidia di chi a Roma non lo voleva, un gruppo composito, e a settembre ha annunciato a sorpresa che sul podio romano non avrebbe diretto più tradendo la fiducia di chi credeva in lui. La notizia è stata accolta con piacere e soddisfazione salvo che dagli amici della musica. L’Aida di questi giorni avrebbe dovuto essere una ripresa delle recite novembrine dell’illustre maestro; è diventata una «prima».
Ho più volte parlato di Jader Bignamini, un giovane direttore ancora in formazione e dal grande talento. Questa volta, e proprio a contatto con una difficillima partitura fatta per i concertatori che hanno alle spalle l’esperienza di una vita, egli mi ha convinto del tutto, andando addirittura oltre ogni mia attesa. Adesso ha un gesto semplice, autorevole, contenuto, nel quale tuttavia c’è tutto. Ha concepito l’Aida con splendida sintesi: ma ponendo un’attenzione ai particolari di che la preziosissima partitura è contesta che metteva capo a un gusto squisito da direttore d’altri tempi. Non voglio dire che Bignamini sia grande come loro, ma nell’Aida ha lo stesso gusto di De Fabritiis, di Santini, di Karajan, di Muti, di Levine; e come loro è capace di tenere la compagnia di canto nei binarî dell’ortodossia impedendole quelle volgarità individualistiche che dai cantanti occorre attendersi sempre e nella trappola delle quali sul medesimo podio romano è caduto un altro giovane direttore di grande talento, Gaetano d’Espinosa.
Voglio aggiungere che negli ultimi anni sono stato costretto ad ascoltare l’Aida quattro volte: una sotto la bacchetta di un ottimo direttore che l’ha malissimo concertata, Zubin Mehta; le altre sotto la bacchetta di direttori mediocrissimi che l’hanno pessimamente
In scena Un momento dell’«Aida» all’Opera di Roma diretta: Wellber, Noseda, Luisotti; e per non fare cinquina non sono andato a Santa Cecilia per quella diretta da Pappano. Questa del Teatro dell’Opera è valsa a consolarmi delle sofferenze.
Lo è valso anche per l’eccellenza della compagnia di canto. E qui incomincio da due ruoli che vengono trascurati perché ritenuti di fianco, quasi che in Verdi esistessero ruoli di fianco: il Messaggero e la Sacerdotessa che canta l’«interno» del primo atto. Antonello Ceron e Simge Büyükedes, sono stati addirittura esemplari; e il tenore non ha fatto rimpiangere il mitico Piero De Palma. Il Re non è ruolo di fianco e benissimo lo ha affrontato Luca Dell’Amico.
Anita Rachvelishvili, già ottima Amneris alla Scala, qui, meglio diretta, è stata addirittura commovente per pathos oltre che perfetta per tecnica, ricordando che il suo ruolo è addirittura il coronamento di tutti i mezzosoprani del teatro di Verdi ed è non meno importante di quello della protagonista. La quale è stata Csilla Boross che non solo ha ben esordito ma nel terzo e quarto atto ha dato il meglio di sé. Il tenore Fabio Sartori è oggi il miglior Radames italiano; per me una rivelazione sono stati Roberto Tagliavini (un Ramfis giovane…) e Giovanni Meoni quale Amonasro.
Sui bellissimi costumi e sobrie scene di Carlo Savi, Micha van Hoecke ha costruito una plausibile, attenta, intelligente regia; e le sue coreografie posseggono un senso rapportato all’Opera, il che è una rarità.