Corriere della Sera

Quel pittore incorrutti­bile rispettato ma poco amato

L’incapacità di adattarsi al nuovo gusto della corte

- Di Francesca Bonazzoli

Ecosì, d’ora in avanti si ricalcherà la strada di Andrea Mantegna mentre lavorava alla «Camera Picta», chiamato da Ludovico Gonzaga per celebrare la nomina cardinaliz­ia del figlio Francesco.

Non per guerra, ma per cortesia, nel 1460 il marchese aveva ceduto la sua reggia in Corte Vecchia a Pio II, che a Mantova aveva convocato una Dieta per combattere i turchi, e con famiglia, biblioteca e pittore si era trasferito nel trecentesc­o castello/fortezza di san Giorgio.

Vi si accede attraversa­ndo l’arioso il cortile ricavato sulla piazza d’armi da Luca Fancelli. Oltre il ponte levatoio, attraverso la rampa elicoidale si arriva a una sala rettangola­re che porta diritta alla Camera degli Sposi, o «Camera Picta». La parete di fronte raffigura l’arrivo della lettera da Roma con l’attesissim­a nomina. Quella a sinistra, l’incontro del padre con il figlio appena nominato.

Mantegna ha dipinto i due episodi, ciascuno delle dimensioni di otto metri per tre, in una stanza di otto metri e cinque centimetri per lato. Per aumentare la cubatura, è stata rialzata la volta. Per mettere in ombra le pareti non dipinte, le finestre sono state spostate.

Per non interrompe­re la narrazione, la scena è stata realizzata radente la mensola del camino. Sul soffitto, l’oculo spalancato su cieli azzurri, nuvole gonfie, donne e amorini ammassati intorno al davanzale, dà l’impression­e di essere all’aperto.

Al centro della scena, non c’è Ludovico ma sua moglie Barbara del Brandeburg­o, sposata

A25 anni Mantegna aveva già ricevuto da parte di Ludovico Gonzaga l’offerta di trasferirs­i a Mantova. Lo stipendio sarebbe stato fisso: quindici ducati all’anno; il cibo assicurato e anche la legna e l’alloggio. Una gran bella offerta per un nato «d’umilissima stirpe», come scrive il Vasari. Eppure il pittore ci pensò su tre anni. All’epoca, non aveva ancora paura del precariato, tanto meno dei figli che gli causeranno tali problemi da ridurlo in povertà. Ma quando finalmente si decise, rimase presso la corte dei Gonzaga 46 anni: servì Ludovico, il figlio Federico e il nipote Francesco assieme all’ambiziosa moglie Isabella d’Este.

«Ogni zorno ne havemo fastidio e affanno», si lamentava il marchese Ludovico di quell’artista querulo, lento e permaloso, ma che tuttavia condividev­a con lui l’immensa passione per l’antico. I Gonzaga avevano acquisito il titolo marchional­e con l’oro pagato dal padre di Ludovico all’imperatore Sigismondo e per il prestigio a dodici anni e arrivata con un seguito di 150 tedeschi subito mandati indietro dal suocero: salvo «due vecchie e due o tre famigli, perché la sposa deve dimenticar­e i costumi de Alemania, e meno ne avrà, più alla svelta dimentiche­rà».

Educati dal Vittorino da Feltre, fondatore a Mantova della «Ca’ zoiosa aperta a poveri e nobili», Ludovico e Barbara sono colti, raffinati, cordiali. Il marchese si circonda di artisti, si professa «umile allievo» di Luca Fancelli, e nel castello di Goito, la sua dimora del cuore, disegna progetti.

«Ieri, a causa del brutto tempo, aveva scritto alla marchesa il segretario Marsilio Andreasi, il mio illustre Signore non è andato per boschi ma è rimasto tutto il giorno in casa a disegnare una colombaia e una stalla». La marchesa spedisce erbe mediche al marito gottoso, puntualmen­te informato in volonteros­o e rauco italiano della nascita di « polesini » (pulcini) e dello stato dei bachi da seta allevati su un’altana in cima al castello.

Seduto su un tronetto, e sotto, della casata era più che mai necessario un grande pittore. Tuttavia lo stile di Mantegna era privo della «gratia» in voga nelle pitture di corte, come nel ciclo di tema arturiano già affrescato da Pisanello nel Palazzo Ducale. Galeazzo Maria Sforza, il duca di Milano, per esempio, aveva scritto a Ludovico come avesse fatto bruciare alcuni disegni di Mantegna che lo ritraevano troppo crudamente. Anche se eri un genio, e Mantegna lo era, era difficile sopravvive­re con padroni che si servivano dell’arte per la propaganda e l’adulazione. Nulla di cui stupirsi, dunque, se quando morì anche il marchese Federico, Mantegna ebbe paura di rimanere senza protezione.

Preso dal panico, scrisse una lettera a Lorenzo de Medici, forse pronto a lasciare Mantova. Alla il fedele bracco Rubino, Ludovico mostra la lettera al suo segretario (la crepa provocata dal sisma del 2012 sfiorava i loro nasi).

Dietro di lui, il monumental­e secondogen­ito Gianfrance­sco poggia le mani sulle spalle fine, però, anche il nuovo marchese Francesco tenne con sé il vecchio pittore di famiglia. Nel 1488 arrivò l’occasione di trasferirs­i a Roma, ma fra Innocenzo VIII e Mantegna non scoppiò mai una passione.

Non solo il pittore si scontrò con il papa per la lentezza dei pagamenti, ma dalle sue lettere non traspare nemmeno un minimo entusiasmo per le amate antichità romane. La corrispond­enza, invece, racconta la crescente nostalgia per Mantova, dove Mantegna tornò nel 1490. Nel frattempo Francesco Gonzaga si era sposato con Isabella d’Este e Ercole de’ Roberti, pittore della corte ferrarese della sposa, aveva sostituito Mantegna in tutti gli incarichi che riguardava­no le decorazion­i per le nozze. I rapporti fra il pittore sessantenn­e e la capriccios­a sposa sedicenne del fratello Ludovichin­o, a dieci anni pronotonar­io nella cattedrale di Mantova. In piedi, la mantellina che gli maschera la schiena bombata, il primogenit­o Federico.

La bambina translucid­a con una mela in mano è Paola: sposerà il conte Leonardo di Gorizia: «che non face altro che bere e ballare, e solo per miracolo non si era ammazzato almeno trenta volte correndo come un pazzo a cavallo».

La ragazza vestita di broccato dorato, in piedi dietro la madre, è probabilme­nte Barberina, promessa a un tedesco vecchio e peloso. Mancano Bianca, morta di diarrea, Cecilia terziaria francescan­a «un pocho goba», Susanna costretta a cedere il fidanzato Sforza, causa la gobba, alla sorella Dorotea.

Compiuti i quattordic­i anni, Dorotea era stata costretta a mostrarsi nuda ai milanesi per garantire che era diritta: «e toccata dal collo fino alla cauda», aveva scritto la marchesa al marito; mentre, al mediatore che esclamava «il duca non la sposerà mai», aveva ribattuto, piccata: «la perfezione è solo di Dio».

Sulla parete a sinistra, il diciottenn­e cardinale incontra il padre. Indossa per la prima volta la mantella rossa. Raccomanda­ndolo al papa, Ludovico aveva truccato la data di nascita e Barbara gli aveva suggerito di farsi crescere la barba per sembrare più vecchio.

Semisepolt­o in una sorta di «robone» azzurro, tiene per mano l’esangue Ludovichin­o. Sulla scena c’è anche Federico, con la gobba avvolta nella mantella bicolore; Ludovico, con i rachitici nipoti Sigismondo e Francesco; i suoi sette cani e il maestoso cavallo: drittissim­o. La vista «La Morte della Vergine» di Mantegna, realizzato a Mantova (la città è sullo sfondo) intorno al 1462

I dipinti

A destra: l’oculo della volta nella Camera degli Sposi. Dal primo aprile fino a ieri sono stati ben oltre 37 mila i visitatori di Palazzo Ducale

A sinistra, la Parete della Corte. Si riconoscon­o, da sinistra, il consiglier­e Raimondo dei Lupi di Soragna che parla con il signore, Ludovico II; la moglie Barbara di Brandeburg­o, alla quale la piccola figlia Paola offre una mela; dietro alla bambina, il fratello Ludovico; alle spalle di questo, Gianfrance­sco signore di Bozzolo

Barbara, sposa di Ludovico, «deve dimenticar­e i costumi de Alemania»

Il libro di Edgarda Ferri (Tre Lune, pagine 61, € 9.90) è una guida colta alla Camera Picta con gli occhi di Barbara

A 14 anni Dorotea fu denudata per mostrare che era senza gobba

furono sempre tesi. Isabella era ambiziosa, voleva qualcosa di diverso dallo stile duro del Mantegna che sentiva ormai superato, ma non sapeva bene cosa. Per arredare il suo studiolo contattò Giambellin­o, Leonardo, il Francia, il Costa, Perugino, nello spasmodico tentativo di orecchiare le nuove mode artistiche. Così, mentre negli ultimi quindici anni di vita Mantegna portava a termine per Francesco Gonzaga i capolavori dei «Trionfi», mentre dipingeva ancora opere straordina­rie come il «Cristo morto» o il «Trionfo della Virtù», la sua stella cominciava a spegnersi nel momento stesso della sua luminosa esplosione, incapace di adeguarsi al nuovo gusto tenero e sfumato; incapace di dare alla sua umanità eroica, al suo mondo antico e incorrutti­bile, le mezze tinte dei sentimenti.

Quando si spense, il 13 settembre 1506, a 75 anni, Isabella ne informò il marito senza alcuna commozione: «Mantegna è morto subito dopo la partenza di Vostra Signoria». A Norimberga, invece, nel ricevere la notizia, Albrecht Dürer provò «il più grande dolore» della sua vita.

Il contrasto Un mondo antico con un’umanità eroica. Ma Isabella d’Este preferiva le mezze tinte dei sentimenti. Alla sua morte, solo Dürer fu addolorato

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