Corriere della Sera

La contraddiz­ione dell’ottimismo e quel linguaggio che allontana la gente

- Corrado Stajano

Sembra che l’ottimismo sia diventato un obbligo e chi dissente, chi vorrebbe approfondi­re i problemi, discuterli con argomentaz­ioni motivate, giuste o ingiuste che siano, viene guardato come un disfattist­a, un nemico, un traditore.

Non ci si rende conto che l’ottimismo predicato in questo modo è una contraddiz­ione. Non va d’accordo, infatti, con lo stile politico inaugurato dal governo Renzi e con il linguaggio usato dai governanti, rigonfio di «prendere o lasciare» che certo non serve ad avvicinare i cittadini alla politica e a far ritrovare quella fiducia e quel fervore che sarebbero necessari.

«Abbiamo stravinto, li abbiamo distrutti»; Li abbiamo asfaltati»: sono alcuni dei modi di porgere del presidente del Consiglio, durante gli inimmagina­bili voti di fiducia sull’Italicum. E ancora: «Se non votate ricordatev­i che andate a casa». È la minaccia che spezza il cuore ai parlamenta­ri terrorizza­ti di non tornar più in quel paradiso in terra, Montecitor­io. Dimentico, Renzi, che non spetterebb­e a lui, eventualme­nte, il potere di sciogliere le Camere.

Ogni giorno si ha la replica di questo linguaggio da ring abitualmen­te usato dai «secondi» dei pugili per sgridarli o per eccitarli alla lotta, ma creatore di disagio nella vita quotidiana. Non è certamente questo il modo di colmare la distanza tra società politica e comunità. Le espression­i più crude sono destinate ai dirigenti e ai parlamenta­ri del Pd non allineati, deboli vittime d’epoca di quella che fu la sinistra, il Pci, il Pds, i Ds. Viene in mente una pagina dolorante del gran romanzo di Claudio Magris, Alla cieca :«Comunque, finché te le danno gli altri, i nemici, i farabutti, è una cosa che, se hai fegato, puoi sopportare. Il peggio viene quando a metterti nella fossa dei serpenti sono i tuoi, e dopo un po’ non sai più se quelli sono i tuoi o se sono le carogne che con i tuoi hai sempre cercato di spazzar via».

La crisi dei partiti è profonda, la caduta delle aggregazio­ni crea vuoti nella società e può dar vita a populismi dissennati e a reazioni incontroll­ate. Nel suo saggio di due anni fa, Finale di partito, Marco Revelli spiegò come la crisi dei partiti politici tradiziona­li rischiava di contagiare l’essenza stessa della democrazia. Ora siamo proprio su quel pericoloso crinale.

La nuova legge elettorale approvata lunedì alla Camera dopo risse, conflitti, scontri all’arma bianca, l’aula semivuota al momento del voto — la minoranza del Pd ha avuto invece il coraggio di votare contro — non risolve, come viene detto, il problema della governabil­ità. Un costituzio­nalista illustre come Valerio Onida, già giudice della Consulta e poi suo presidente, ha spiegato sul Sole 24Ore del primo maggio quali sono i rischi della legge per l’equilibrio del sistema democratic­o parlamenta­re. Il suo giudizio è decisament­e negativo, vede nell’Italicum un «favore per il potere di colui che conquista la carica di primo ministro». Teme per quel che può accadere in un momento come questo in cui «i partiti tendono a trasformar­si in comitati elettorali a sostegno personale di un leader». Inascoltat­o anche lui.

Il presidente Mattarella, professore di Diritto parlamenta­re, deputato che votò la legge che porta il suo nome e si batté contro il Porcellum, giudice della Consulta, deludendo le speranze di molti, ha scelto la via del giudizio tecnico-politico in nome dei poteri del Parlamento. Ora ci sarà probabilme­nte il referendum e la Consulta non rimarrà silente.

La crisi è forse ai timidi albori della fine, non per meriti nazionali — Draghi santo subito — ma è ancora ben pressante in tanti settori della società, la disoccupaz­ione al 13 per cento, quella giovanile al 43 per cento, l’inflazione che fa capolino, i consumi che non crescono, la montagna di soldi da trovare dopo la sentenza della Consulta sul blocco della rivalutazi­one delle pensioni per la bocciatura della legge Fornero, dodici miliardi,

Uno stile rigonfio di «prendere o lasciare» certo non serve a colmare la distanza tra cittadini e politica e a far ritrovare quella fiducia e quel fervore che sarebbero necessari Invece di usare messaggi pubblicita­ri, non sarebbe più corretto e più utile dire le cose come stanno e smetterla di praticare la vanteria come metodo di governo? Il dire non è il fare

sembra, e anche l’irrisolto problema delle stragi dei migranti nel Mediterran­eo e il rifiuto generalizz­ato della nuova legge sulla scuola, lo sciopero massiccio dei professori, degli studenti e delle famiglie con le manifestaz­ioni di protesta in tutto il Paese che dovrebbero destare preoccupaz­ione. Invece di puntare sull’ottimismo della retorica pubblicita­ria non sarebbe più corretto e più utile dire le cose come stanno, smetterla di praticare la vanteria come metodo di governo? Il dire non è il fare.

Lo slogan ossessivam­ente ripetuto è che si vuole cambiare l’Italia. Qual è il programma riformator­e? Il centrosini­stra e anche l’Ulivo ce l’avevano. E adesso? «Studiate, ragazzi», dicevano una volta i vecchi maestri agli scolari riottosi. «Non avete le basi», dicevano anche.

«Guai alla decisione che precede l’analisi», ha detto l’altra sera Romano Prodi a Che tempo che fa, la trasmissio­ne di Rai 3. Quale abisso di stile tra il professore colto e i giovani turchi che avranno sì talento, ma lo usano, precoci, per il proprio potere personale e per la propria immagine di pistard della politica. «L’imperativo è tenere botta», «Facciamo il tagliando», «Non molliamo di un millimetro»: di nuovo protagonis­ta il linguaggio, spia indiziaria che smaschera anche i cuori più segreti.

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