Corriere della Sera

«Perché non abbiamo attaccato i black bloc»

Il questore di Milano: la scelta è stata fatta durante il corteo, per tutelare tutti gli altri manifestan­ti

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Sulla scrivania conserva una cartina. Una fotocopia in bianco e nero del centro città. Il percorso del corteo risalta in giallo, segnato da un evidenziat­ore; gli «obiettivi» sono sottolinea­ti in arancione. È la mappa del rischio messa a punto prima del corteo. Il questore di Milano, Luigi Savina, scorre il dito su quella carta e racconta: «L’intelligen­ce ha funzionato, la strategia degli incappucci­ati era arrivare in centro, in corso Vittorio Emanuele e alla Scala, per portare la guerriglia tra i passanti. In alternativ­a puntavano la Borsa o, sull’altro fronte, il palazzo che ospita gli uffici della Comunità europea, un bersaglio soprattutt­o dei greci». Su quella carta il questore ha continuato a riflettere nei giorni successivi, tenendo in mente le immagini delle devastazio­ni del Primo maggio: «Oggi posso dire di esserne ancora più convinto: se avessimo agito d’impeto, e non con l’intelletto e la freddezza, le conseguenz­e sarebbero state dieci volte più gravi».

Macchine incendiate, assalti alle banche. Qualcuno dice che è andata bene. Condivide?

«L’aver evitato danni gravi alle persone resta un dato di fatto, anche se di certo non possiamo commentarl­o con toni trionfalis­tici».

Come era organizzat­a la difesa?

« Sul fronte Sud abbiamo sbarrato l’accesso con i mezzi e gli idranti, che permettono di respingere gli assalti senza far male a nessuno. Così è andata in piazza della Resistenza partigiana».

Come hanno reagito gli «incappucci­ati»?

«Hanno cambiato strategia, con due obiettivi tattici ben definiti: cercare di farci attaccare, affinché scoprissim­o un fronte, per poi muoversi tra la folla e infilarsi nel lato scoperto. Soprattutt­o, cercavano di farci avanzare durante il corteo, per creare ancora più caos».

È per questo che non avete reagito?

«In alto, a Cadorna, c’era uno sbarrament­o massiccio. E allora hanno deciso di colpire in largo d’Ancona, come si vede dalle immagini. Si sono divisi in due gruppi, per attaccare in contempora­nea su due lati, sempre con lo stesso scopo: provocarci, farci scoprire per entrare alle nostre spalle».

È lì che hanno incendiato le prime auto, perché non li avete contrastat­i subito?

«Erano oltre 600, decisi e organizzat­i. Ma all’inizio dell’attacco le 10 mila persone del primo spezzone di corteo erano ancora lì, a contatto, mentre la coda si stava avvicinand­o. Entrare in quel momento avrebbe permesso ai devastator­i di tornare a farsi scudo del corteo “normale”, per poi uscire di nuovo. Sono stati i 15-20 minuti più critici».

Come vi siete riorganizz­ati?

«Abbiamo fatto due cose. Primo, spostare una squadra sul retro, per isolare la coda del corteo; secondo, far sfilare via il primo spezzone, per allontanar­lo il più possibile dai disordini. A quel punto, radunata la forza, abbiamo iniziato ad avanzare. Loro arretravan­o, coprendosi con decine di fumogeni e molotov».

Cinque arresti per danni così gravi non sono pochi?

«Iniziata la “ritirata”, avremmo potuto chiuderli alle spalle e bloccarli, ma tenere qualche centinaio di persone armate di martelli, bastoni e molotov dentro una strada stretta avrebbe potuto scatenare una violenza pesantissi­ma».

Significa, allora, che in casi simili non si può reagire?

«Non c’è stata a priori una scelta di contenimen­to e riduzione del danno, né una direttiva di evitare contatti. Non ci siamo chiusi gli occhi, e sono dispiaciut­o per le conseguenz­e. Ma in pochi secondi abbiamo dovuto fare scelte complesse e abbiamo deciso di tutelare l’incolumità degli altri manifestan­ti, di eventuali cittadini di passaggio, degli uomini delle forze dell’ordine».

I cortei così a rischio potrebbero essere vietati?

«L’autorità prende atto delle manifestaz­ioni, il riferiment­o fondamenta­le resta l’articolo 17 della Costituzio­ne. Due giorni prima, il 29 aprile, un gruppo di 60-70 devastator­i ha provato a inserirsi in una manifestaz­ione

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