Corriere della Sera

LA STANDING OVATION PER «CHARLIE HEBDO» È LA GIUSTA RISPOSTA A CHI NON SA DISTINGUER­E

- Di Pierluigi Battista

La migliore risposta agli scrittori che non sanno nemmeno distinguer­e tra vittime e carnefici è stata la commovente, interminab­ile standing ovation che ha accolto la premiazion­e di Charlie Hebdo nella cerimonia del Pen Club a New York. Avevano contestato quel premio alla «libertà d’espression­e». Hanno messo sullo stesso piano chi ha pubblicato vignette «blasfeme» e perciò è stato sterminato e il commando di fanatici jihadisti che consideran­o una vignetta meritevole della pena di morte per i loro autori. Si sono dissociati anche nomi importanti della letteratur­a. Ma alla fine quell’applauso, tutti in piedi, tutti a omaggiare un giornale massacrato da una strage compiuta dai nemici della libertà d’espression­e, ha in parte attenuato il senso di sgomento nel vedere tanti intellettu­ali schierati con chi vuole limitarla e mettere le briglie. Sembrava lontanissi­mo il tempo in cui si sfilava gridando «Je suis Charlie». La scelta del Pen Club rientrava in quella atmosfera. Sembrava evidente l’attacco alla libertà, il disgusto per la libertà che quella carneficin­a trasmettev­a. Ma quella solidariet­à è durata poco. Intellettu­ali raffinatis­simi hanno dimostrato tutta la loro pochezza e il loro scarso attaccamen­to per la libertà d’espression­e al punto da non capire la distinzion­e fondamenta­le enunciata durante la cerimonia da Gèrard Biard, direttore del settimanal­e satirico: «Being shocked is part of democratic debate, being shot is not». Difficile rendere in italiano il gioco di parole tra shocked e shot. Ma è facile capire che essere scioccati, colpiti, anche offesi fa parte della discussion­e democratic­a, mentre essere ammazzati per ciò che si è scritto e pubblicato, per quanto duro possa essere, è tutta un’altra storia: è intolleran­za e dittatura. La standing ovation di New York è una risposta meraviglio­sa agli intolleran­ti e ai loro sostenitor­i. Su Corriere.it Puoi condivider­e sui social network le analisi dei nostri editoriali­sti e commentato­ri: le trovi su www.corriere.it attuti (per ora) gli avversari, addomestic­ati (per il momento) i dissidenti, la prossima minaccia sarà invisibile. E non in senso metaforico: il 31 maggio Matteo Renzi rischierà di non vedere alle urne delle Regionali almeno un elettore su due, nei casi peggiori due su tre. Dalla Campania alla Liguria, dalle Marche alla Puglia e perfino nella «rossa» Toscana, i sondaggist­i intonano tutti lo stesso de profundis: le Regioni non piacciono più a nessuno o quasi, sei italiani su dieci le consideran­o una iattura, otto su dieci ne diffidano. A torto o a ragione, sono percepite come un buco nero di sprechi e malaffare: trecento consiglier­i e sedici consigli regionali finiti nelle indagini per peculato di questi ultimi tre anni (e rubricati con l’orrido neologismo di Rimborsopo­li) hanno scavato un fossato tra la gente comune e i palazzi dell’allegro federalism­o all’italiana.

L’astensioni­smo, un tempo vissuto quasi come una colpa o una vergogna, sta diventando un tratto identitari­o da rivendicar­e con orgoglio. In EmiliaRoma­gna, dove si votò per la Regione a novembre dopo le dimissioni di Vasco Errani, è ancora in crescita: dal già clamoroso 63 per cento di sei mesi fa al 72 per cento rilevato di recente (si rivoterà nel 2016 per il sindaco di Bologna). Con il fattore A, dunque, sarà chiamato a misurarsi a fine maggio il segretario-presidente in una sfida che contiene qualche elemento paradossal­e. Perché, di suo, Renzi non le ha mai avute troppo a genio, le Regioni. Appena ha potuto, ha tentato di sforbiciar­ne i bilanci. Sensibile com’è agli umori popolari, non ha mai perso occasione per sottolinea­re che di «grasso» da

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