LA STANDING OVATION PER «CHARLIE HEBDO» È LA GIUSTA RISPOSTA A CHI NON SA DISTINGUERE
La migliore risposta agli scrittori che non sanno nemmeno distinguere tra vittime e carnefici è stata la commovente, interminabile standing ovation che ha accolto la premiazione di Charlie Hebdo nella cerimonia del Pen Club a New York. Avevano contestato quel premio alla «libertà d’espressione». Hanno messo sullo stesso piano chi ha pubblicato vignette «blasfeme» e perciò è stato sterminato e il commando di fanatici jihadisti che considerano una vignetta meritevole della pena di morte per i loro autori. Si sono dissociati anche nomi importanti della letteratura. Ma alla fine quell’applauso, tutti in piedi, tutti a omaggiare un giornale massacrato da una strage compiuta dai nemici della libertà d’espressione, ha in parte attenuato il senso di sgomento nel vedere tanti intellettuali schierati con chi vuole limitarla e mettere le briglie. Sembrava lontanissimo il tempo in cui si sfilava gridando «Je suis Charlie». La scelta del Pen Club rientrava in quella atmosfera. Sembrava evidente l’attacco alla libertà, il disgusto per la libertà che quella carneficina trasmetteva. Ma quella solidarietà è durata poco. Intellettuali raffinatissimi hanno dimostrato tutta la loro pochezza e il loro scarso attaccamento per la libertà d’espressione al punto da non capire la distinzione fondamentale enunciata durante la cerimonia da Gèrard Biard, direttore del settimanale satirico: «Being shocked is part of democratic debate, being shot is not». Difficile rendere in italiano il gioco di parole tra shocked e shot. Ma è facile capire che essere scioccati, colpiti, anche offesi fa parte della discussione democratica, mentre essere ammazzati per ciò che si è scritto e pubblicato, per quanto duro possa essere, è tutta un’altra storia: è intolleranza e dittatura. La standing ovation di New York è una risposta meravigliosa agli intolleranti e ai loro sostenitori. Su Corriere.it Puoi condividere sui social network le analisi dei nostri editorialisti e commentatori: le trovi su www.corriere.it attuti (per ora) gli avversari, addomesticati (per il momento) i dissidenti, la prossima minaccia sarà invisibile. E non in senso metaforico: il 31 maggio Matteo Renzi rischierà di non vedere alle urne delle Regionali almeno un elettore su due, nei casi peggiori due su tre. Dalla Campania alla Liguria, dalle Marche alla Puglia e perfino nella «rossa» Toscana, i sondaggisti intonano tutti lo stesso de profundis: le Regioni non piacciono più a nessuno o quasi, sei italiani su dieci le considerano una iattura, otto su dieci ne diffidano. A torto o a ragione, sono percepite come un buco nero di sprechi e malaffare: trecento consiglieri e sedici consigli regionali finiti nelle indagini per peculato di questi ultimi tre anni (e rubricati con l’orrido neologismo di Rimborsopoli) hanno scavato un fossato tra la gente comune e i palazzi dell’allegro federalismo all’italiana.
L’astensionismo, un tempo vissuto quasi come una colpa o una vergogna, sta diventando un tratto identitario da rivendicare con orgoglio. In EmiliaRomagna, dove si votò per la Regione a novembre dopo le dimissioni di Vasco Errani, è ancora in crescita: dal già clamoroso 63 per cento di sei mesi fa al 72 per cento rilevato di recente (si rivoterà nel 2016 per il sindaco di Bologna). Con il fattore A, dunque, sarà chiamato a misurarsi a fine maggio il segretario-presidente in una sfida che contiene qualche elemento paradossale. Perché, di suo, Renzi non le ha mai avute troppo a genio, le Regioni. Appena ha potuto, ha tentato di sforbiciarne i bilanci. Sensibile com’è agli umori popolari, non ha mai perso occasione per sottolineare che di «grasso» da