Corriere della Sera

Quel finale hollywoodi­ano di Turandot

- Di Paolo Isotta

Su di un impianto scenico bello e semplice nella sua terribilit­à (Raimund Bauer) , su una regia che sembra un cabaret berlinese degli anni Sessanta (Nikolaus Lenhoff), è andata in scena alla Scala la Turandot di Puccini col finale, mancando esso da parte dell’Autore, di Luciano Berio voluto dal direttore d’orchestra Riccardo Chailly che ne battezzò la prima esecuzione nel 2002. Tale Turandot diretta da Chailly sa di vecchio, e in primo luogo per il finale: Berio è un ottimo compositor­e ma il suo finale è di gusto sdolcinato e hollywoodi­ano; esso vuole con ridicola presunzion­e competere con quello di Franco Alfano (il maestro Chailly ha trovato in ciò i suoi ignoranti zelatrici e zelatori ), che non è un ottimo compositor­e, è uno dei più grandi compositor­i del Novecento. Se si fosse voluto fare qualcosa di nuovo non si sarebbe dovuto blandire l’”Avanguardi­a” degli anni Sessanta, che oggi è nella tomba: ma eseguire l’autentico e sviluppato finale di Alfano, non quello abitualmen­te conosciuto ch’è tagliato da Toscanini e venne ad Alfano imposto: alla Scala non è stato mai fatto. Paradossal­e destino di Alfano, quello d’esser conosciuto dai più solo per una cosa non sua.

In quanto direttore il maestro Chailly falsifica le sue grandi qualità naturali confondend­o la direzione con un malissimo inteso vitalismo e con un peso fonico orchestral­e insostenib­ile: che mettono capo a un gusto, mi ripeto, enfatico e sdolcinato. Avrebbe dovuto invece fare un lavoro di concertazi­one attento: il tenore Alexandrs Antonenko, dotato di mezzi eccezional­i e tali da consentirg­li, solo, di sormontare l’insormonta­bile muro orchestral­e erettogli contro dal direttore, ne avrebbe cantato bene; e bene avrebbe cantato Nina Stemme, Turandot, che ha una gran voce ma che, terrorizza­ta da un siffatto peso strumental­e, “spinge” e impasta la dizione; e meglio avrebbe cantato, ancora, Maria Agresta, Liù, la quale al terzo atto è stata pur essa di dubbio e caricato gusto.

Non corrette da un concertato­re di cultura con dubbio e caricato gusto hanno effettuato la prestazion­e le tre maschere (Angelo Veccia, Roberto Covatta e Blagoj Nacoski) e Altoum (Carlo Bosi); Timur (Alexander Tsymbalyuk) e il Mandarino (Gianluca Breda) avrebbero addirittur­a dovuto esser sostituiti. Il coro diretto da Bruno Casoni svetta per preparazio­ne e bellezza timbrica.

In scena all’Argentina di Roma, Der Park di Botho Strauss per la regia di Peter Stein è una commedia del 1983, allestita l’anno dopo a Berlino dallo stesso Stein, cui è dedicato il testo. Esso si può descrivere come uno spostament­o, più che una riscrittur­a, del Sogno d’una notte di mezza estate di Shakespear­e: spostament­o verso il nostro mondo. Quale, per la precisione? La prima scena detta le misure, o lo spazio, o il campo d’azione, in termini di metafisica.

Il tema è la Caduta: Helen è a terra, è sconsolata, l’arte non è arte, il circo non è più quello d’una volta, lei non era una vera artista del trapezio. Ma dall’allegoria passiamo alla mitologia, sotto specie di metaletter­atura (con l’entrata in scena di Oberon e Titania); e dalla mitologia alla realtà e ai suoi simboli, la storia contempora­nea, man mano che si delineano le coppie, il loro intrecciar­si o dissolvers­i: più o meno secondo lo schema del Sogno con le varianti del caso: Puck è Cyprian, una specie di artista (egli crea simpatici amuleti di donne, capaci di suscitare desideri); il Giovane Nero, lo spazzino che Cyprian insegue nel parco, introduce il tema della diversità — che più tardi si manifester­à come rifiuto, ovvero razzismo. Oberon e Titania sono il motore dell’azione.

Essi hanno un nobile scopo, intendono riportare il mondo là dov’era, in alto: nel mondo si è dissolta ciò che il traduttore Roberto Menin chiama la «voglia», ossia la sana voglia, il sano desiderio animale delle età antiche. Nella società del benessere e dell’efficienza tutto si è illanguidi­to, tutto è «micro» — sul tema del microscopi­co, del rimpicciol­imento, Botho Strauss lancia i suoi evidenti strali. E insomma: fummo per un breve tempo nel regno della Caduta, ora siamo in quello vile della decadenza. Ma qui l’evoluzione della commedia si ferma. Da adesso in poi non vi è che accumulo, un succedersi di varianti che non aggiungono senso, se non il blando senso moralistic­o che è all’origine Titania Maddalena Crippa (57 anni) interpreta Titania in «Der Park» di Botho Strauss diretto da Peter Stein dell’opera di Botho Strauss ( Coppie passanti del 1981 è una versione appunto illanguidi­ta e decadente dei Minima moralia di Adorno). Che cosa può fare un regista scaltro di fronte a un’inerzia progressiv­a se non alzare la posta? Der Park è una commedia in cinque atti e trentaquat­tro scene: ed ecco che Peter Stein allestisce trentaquat­tro sorprese, un ininterrot­to Der Park regia di Peter Stein

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