Da abbattere o da idolatrare L’enigma del Mutante
L’impatto emotivo di un animale preistorico accucciato
Il più francese dei rumeni, il filosofo Emil Cioran, scelse di lasciare la sua Romania per salvarsi dal «fallimento collettivo della folla». Erano gli anni Trenta e Cioran si era spaventato per le proprie stesse simpatie filofasciste. Così come, più tardi, l’albanese Ismail Kadare fuggì dalla «pazza folla» della sua terra madre, spaventato per l’assenza di democrazia del regime filosovietico.
L’immagine della folla in fuga, fremente (come gli assediati di Parigi in Suite Francese di Irène Némirovsky) o compatta (come nei fittissimi dialoghi corali nel libro La coda, del russo Sorokin, proibito in patria), è un elemento ricorrente nell’arte che ha le radici nell’Europa orientale e così la vigorosa installazione Crowd and Individual della polacca Magdalena Abakanowicz, fino al 2 agosto a San Giorgio Maggiore di Venezia, per la Fondazione Cini, acquista valore simbolico.
L’artista, nata vicino a Varsavia (dove vive) nel 1930, inscena qui un piccolo esercito di 110 figure fatte di juta, una massa critica mutilata, senza testa, che muove in sincrono verso una scultura animale contrapposta (Mutant). Che cosa c’è dietro? Innanzitutto una donna nata e cresciuta in condizioni difficili, costretta a imparare la lezione artistica del realismo socialista, ma ribelle (si rifiutava di ritrarre le enormi modelle con un tratto veritiero e pertanto veniva derisa da accademici e colleghi), solitaria (come ha scritto Angela Vettese: «impossibile da inserire in un filone»), sempre in fuga («La propaganda comunista interveniva costantemente per dirci quello che dovevamo pensare e noi evadevamo mentalmente»).
Però sarebbe riduttivo osservare è quasi una continuità spaziale, una piazza metafisica che comincia sul sagrato della candida basilica palladiana di San Giorgio Maggiore e la Sala Carnelutti che lì, alla sua sinistra, custodisce
che segna il ritorno a Venezia della scultrice polacca Magdalena Abakanowicz dopo il lontano successo della Biennale del 1980, quello che le aprì il mondo delle grandi gallerie internazionali e dei collezionisti, senza minimamente cambiarne il percorso.
Quando, nel buio, si cammina tra due alte quinte verso l’apertura che conduce all’opera, il fiato rimane sospeso, come se già sapessimo che oltre quella porta c’è qualcosa che ci turberà perché ci riguarda. E, in effetti, tra i tendaggi pesanti e i lampadari di Murano di un vecchio salone da ballo, la scena che ci troviamo davanti ha un impatto emotivo immediato e forte: davanti a noi, di schiena, c’è un oggetto grezzo, abbozzato, quello che poi scopriremo essere Il Mutante, un animale preistorico accucciato, cacciatore, un idolo pagano, un simbolo del potere che fissa, nella semioscurità, una folla di corpi (sono 110) che, invadendo (forse) pacificamente uno spazio pubblico, gli vengono incontro o, fermi, lo stanno già scrutando, con i bambini, curiosi e incoscienti, in prima fila.
Regna, volutamente l’ambivalenza, se non addirittura l’ambiguità. Non sappiamo se la folla stia idolatrando il Mutante o lo stia sollevando dall’incarico, se gli si opponga o se stia partecipando a un rito. «All’inizio chi entra è spiazzato, tocca i corpi istintivamente — dice Luca Massimo Barbero, curatore della mostra e direttore dell’Istituto di Storia dell’Arte della Fondazione Cini —, si chiede di cosa sono fatti, se sono pieni o vuoti, perché non hanno la testa. Poi, più passa il tempo, più la domanda cambia: “Chi sono, cosa vogliono, dove vanno, cosa rappresenta l’animale?”, fino ad arrivare al momento in cui, ribaltando le prospettive, ci si azzarda a camminare tra le sculture, sullo stesso piano, di fatto sullo stesso palcoscenico, senza piedistalli di sorta a creare distanze e differenze, per capire che loro sono uno specchio di iuta nel quale ti rifletti, incarnano le tue complessità, le tue paure, le tue memorie, il tuo stesso concetto di storia dell’uomo».
Le sculture stanno agli antipodi della serialità dell’esercito di terracotta dell’imperatore cinese Qin Shi Huang. Le luci che scendono dal soffitto, soffuse ma precise, scavano queste corazze di colori diversi, questi carapaci tormentati e senza sesso, restituendo infiniti dettagli ed esaltando così l’unicità di ogni figura, modellata dalla Abakanowicz mescolando iuta, materiali poveri e colle speciali, lavorando, Il totem Il «Mutante», la scultura che fronteggia la parata di «Crowd and Individual» ( a volte con modelli in carne e ossa e magari dovendo spostare i mobili, negli spazi quotidiani della sua stranissima clausura (prima un monolocale, poi un piccolo appartamento, a Varsavia, che non volle mai abbandonare). Un flusso di opere realizzate tra il 1976 e il 2005, una quantità di corpi con i quali l’artista giurava di poter riempire diverse piazze e che hanno costituito un enorme archivio da cui attingere di volta in volta i pezzi più adatti alle sue grandi installazioni, inedite come questa o apprezzate ospiti dei musei di tutto il mondo.
«Magdalena Abakanowicz è la prima a concepire la scultura non come oggetto singolo, che ritiene decorativo, ridondante, una sorta di grande soprammobile con tanto di didascalia, ma dando importanza alla quantità, alla collettività, e in questo aprendo la strada a scultori come Antony Gormley o Juan Muñoz — dice Barbero —. E mi piace che dopo 35 anni una maestra di questo livello torni qui, quasi in chiusura del suo grande percorso, ad arricchire il pubblico internazionale con quella che forse è la vera scoperta di un’artista dal percorso intensissimo, ma duro e integro».
Il curatore Barbero: «Il pubblico all’inizio è spiazzato, tocca quei corpi, si chiede di cosa sono fatti. Poi la domanda diventa: cosa vogliono, dove vanno»