Corriere della Sera

Il bisogno ossessivo di rimanere diverse

- Di Francesca Bonazzoli

in da piccola la mia occupazion­e era colleziona­re oggetti: la mia stanza era piena di pezzi di legno, sassi, foglie. Diventare artista non è stata una decisione: sono nata così», mi disse Magdalena Abakanowic­z quando la incontrai sei anni fa. Nonostante allora avesse 79 anni e fosse una celebrità già internazio­nale, non aveva ancora superato l’estrema timidezza della bambina ridotta in miseria dal regime comunista; della ragazza che vendeva il proprio sangue per mantenersi a un’Accademia di Belle arti dove le imponevano la dottrina del realismo socialista; della donna emarginata per le origini da possidente terriera. Aveva conservato gli atteggiame­nti diffidenti di chi si protegge, l’insicurezz­a e la ritrosia di chi è certo di non poter essere capito. E tuttavia avevo riscontrat­o quella stessa attitudine psicologic­a in altre artiste molto diverse, dalla Marina Abramovic pre-America a Vanessa Beecroft o Tracey Emin. Generalizz­are è un metodo di riflession­e troppo superficia­le, eppure c’è qualcosa di molto vero nell’affermazio­ne che gran parte delle artiste hanno fatto arte per necessità, spinte da una motivazion­e profonda, fino all’ossessione e addirittur­a al disturbo mentale; senza concession­i all’ambizione o al riconoscim­ento pubblico, ma spinte dalla certezza che l’arte era per loro l’unica via di espression­e e salvezza in un mondo da cui si sentivano diverse. Anzi, misurarsi con l’arte voleva dire essere sospinte ancora di più agli angoli. Oggi la compagine artistica femminile è molto ben rappresent­ata e non ha problemi di visibilità, ma la generazion­e di Abakanowic­z ha dovuto tener fede a se stessa con una ostinazion­e e una caparbietà superiori a quelle mai richieste a qualsiasi uomo. Ed è il motivo per cui la loro arte appare così diversa e necessaria, mai banale né decorativa.

Quando intorno tutto crolla, resta la forma. Liquida come l’amore di Zygmunt Bauman o il volto di madre ritratto da Paulina Olowska in Mother 200, una trasparenz­a sospesa al di là del colore che scivola a gocce quasi fosse pianto o pioggia su un vetro. Intermitte­nte come le luci al neon della Varsavia socialista o la coscienza di Oskar Dawicki che nelle sue ironiche performanc­e compare e scompare e addirittur­a assume veri detective per certificar­e l’esistenza dell’artista. Silenziosa come le presenze che accompagna­no in corteo le geometrie nude dello scultore Miroslaw Balka.

La scena polacca contempora­nea è una tessitura di voci e linguaggi che rispondono con continui scarti e sguardi laterali, piani visivi sovrappost­i ed elusivi punti di domanda alla violenza irrevocabi­le del passato. Sopravviss­uti in fuga su un tappeto volante. C’è chi il tappeto lo trasforma in videogioco interattiv­o e ricopia un manufatto persiano dell’Ottocento per farne il recinto virtuale di guerre stellari apocalitti­che. Accade in Carpet Invaders di Janek Simon, che riflette sulla catastrofe mescolando forza dei simboli e umorismo dissacrant­e, vedi il film del 2003 Odlot (Decollo) nel quale le iconiche torri sante di Cracovia diventano razzi che si staccano dal suolo in un atto di emancipazi­one dalla Storia. Quella

Il contempora­neo L’arte della Polonia è un mosaico di voci che cerca risposte alla violenza del passato

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