Il bisogno ossessivo di rimanere diverse
in da piccola la mia occupazione era collezionare oggetti: la mia stanza era piena di pezzi di legno, sassi, foglie. Diventare artista non è stata una decisione: sono nata così», mi disse Magdalena Abakanowicz quando la incontrai sei anni fa. Nonostante allora avesse 79 anni e fosse una celebrità già internazionale, non aveva ancora superato l’estrema timidezza della bambina ridotta in miseria dal regime comunista; della ragazza che vendeva il proprio sangue per mantenersi a un’Accademia di Belle arti dove le imponevano la dottrina del realismo socialista; della donna emarginata per le origini da possidente terriera. Aveva conservato gli atteggiamenti diffidenti di chi si protegge, l’insicurezza e la ritrosia di chi è certo di non poter essere capito. E tuttavia avevo riscontrato quella stessa attitudine psicologica in altre artiste molto diverse, dalla Marina Abramovic pre-America a Vanessa Beecroft o Tracey Emin. Generalizzare è un metodo di riflessione troppo superficiale, eppure c’è qualcosa di molto vero nell’affermazione che gran parte delle artiste hanno fatto arte per necessità, spinte da una motivazione profonda, fino all’ossessione e addirittura al disturbo mentale; senza concessioni all’ambizione o al riconoscimento pubblico, ma spinte dalla certezza che l’arte era per loro l’unica via di espressione e salvezza in un mondo da cui si sentivano diverse. Anzi, misurarsi con l’arte voleva dire essere sospinte ancora di più agli angoli. Oggi la compagine artistica femminile è molto ben rappresentata e non ha problemi di visibilità, ma la generazione di Abakanowicz ha dovuto tener fede a se stessa con una ostinazione e una caparbietà superiori a quelle mai richieste a qualsiasi uomo. Ed è il motivo per cui la loro arte appare così diversa e necessaria, mai banale né decorativa.
Quando intorno tutto crolla, resta la forma. Liquida come l’amore di Zygmunt Bauman o il volto di madre ritratto da Paulina Olowska in Mother 200, una trasparenza sospesa al di là del colore che scivola a gocce quasi fosse pianto o pioggia su un vetro. Intermittente come le luci al neon della Varsavia socialista o la coscienza di Oskar Dawicki che nelle sue ironiche performance compare e scompare e addirittura assume veri detective per certificare l’esistenza dell’artista. Silenziosa come le presenze che accompagnano in corteo le geometrie nude dello scultore Miroslaw Balka.
La scena polacca contemporanea è una tessitura di voci e linguaggi che rispondono con continui scarti e sguardi laterali, piani visivi sovrapposti ed elusivi punti di domanda alla violenza irrevocabile del passato. Sopravvissuti in fuga su un tappeto volante. C’è chi il tappeto lo trasforma in videogioco interattivo e ricopia un manufatto persiano dell’Ottocento per farne il recinto virtuale di guerre stellari apocalittiche. Accade in Carpet Invaders di Janek Simon, che riflette sulla catastrofe mescolando forza dei simboli e umorismo dissacrante, vedi il film del 2003 Odlot (Decollo) nel quale le iconiche torri sante di Cracovia diventano razzi che si staccano dal suolo in un atto di emancipazione dalla Storia. Quella
Il contemporaneo L’arte della Polonia è un mosaico di voci che cerca risposte alla violenza del passato