Corriere della Sera

Da coach a manager di 70 colleghi: «Mi sentono come uno di loro»

- Roberto De Ponti

E magari qualcuno dei suoi clienti la accuserà di fare favoritism­i.

«Può succedere che mi accusino. Qualcuno me l’ha detto in faccia, qualcuno lo pensa. Io so di poter guardare tutti negli occhi senza vergognarm­i».

Com’è che la gran parte degli allenatori si affida a lei?

«Forse perché sanno che sono stato un allenatore anch’io». È un buon motivo? «Un ottimo motivo. So quali sono i loro problemi, so quali sono le loro voglie e le loro insicurezz­e. E io non mi limito a trattare un ingaggio, per quello può bastare un avvocato. Io, se richiesto, posso dare consigli, ascoltare, suggerire. La differenza tra un avvocato e un ex allenatore è l’amore per il gioco».

Ex allenatore. Come ha deciso di diventare procurator­e?

«Dopo un esonero. D’impulso. Stavo a Montegrana­ro, mi hanno esonerato. Ho pensato: basta, non alleno più. Sulla strada di casa mi sono fermato a San Marino, dove stava Capicchion­i, ai tempi il grande gestore della pallacanes­tro italiano. Mi ha chiesto: vuoi fare il procurator­e? Vediamo se ne sei capace: prova a fare reclutamen­to». E lei? «Ho contattato i miei amici e ho chiesto: vi serve un procurator­e? Se lo fai tu sì, rispondeva­no. In pochi giorni avevo già una scuderia di 30 tecnici».

Il presidente federale Petrucci dice che i procurator­i sono il male del basket.

«Ci sono buoni e cattivi procurator­i, come buoni e cattivi dirigenti».

Lei rappresent­a anche una settantina di giocatori. «Esatto». Vogliamo parlare di conflitto di interessi?

«So dove si vuole arrivare: prima piazzo un allenatore, poi “consiglio” un giocatore...». Esatto. «Mi sento di escluderlo». Perché? «Perché sono stato un allenatore. E da allenatore non avrei mai sopportato che mi venisse imposto un giocatore».

Ha mai pensato di tornare ad allenare?

«All’inizio della mia carriera di procurator­e, quando andavo a proporre i miei clienti, qualche presidente mi chiedeva: ma perché non lo fai tu? Un paio di volte ho vacillato».

Non mi limito a trattare un ingaggio: per quello basta un avvocato

Lei, campano, vive in Brianza da 30 anni, da quando ha allenato Desio. «Ma non morirò a Desio...». Facciamo gli scongiuri. Si sente sempre uomo del Sud?

«La Brianza mi ha insegnato il lavoro giornalier­o, la precisione negli appuntamen­ti, l’ordine. Io ci ho aggiunto l’estro da meridional­e».

A proposito di estro: che cosa ha pensato quando ha visto il suo cliente Pozzecco strapparsi la camicia durante il derby con Milano? «Quello è Pozzecco...». Perché ha fallito a Varese? «Per troppo amore». Non ha paura che si sia bruciato come allenatore?

«Non vuole più farlo, l’allenatore. Ora studierà da manager. Però io uno come Pozzecco, unico ex cestista riconosciu­to fuori dal basket come era per Meneghin, se fossi un responsabi­le della pallacanes­tro italiana me lo terrei ben stretto. Perché lui ama questo gioco». Come Virginio Bernardi? «Forse anche di più».

Un allenatore va capito nei suoi desideri e nelle sue insicurezz­e L’errore più grande per un presidente è voler scegliere il tecnico

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