Da coach a manager di 70 colleghi: «Mi sentono come uno di loro»
E magari qualcuno dei suoi clienti la accuserà di fare favoritismi.
«Può succedere che mi accusino. Qualcuno me l’ha detto in faccia, qualcuno lo pensa. Io so di poter guardare tutti negli occhi senza vergognarmi».
Com’è che la gran parte degli allenatori si affida a lei?
«Forse perché sanno che sono stato un allenatore anch’io». È un buon motivo? «Un ottimo motivo. So quali sono i loro problemi, so quali sono le loro voglie e le loro insicurezze. E io non mi limito a trattare un ingaggio, per quello può bastare un avvocato. Io, se richiesto, posso dare consigli, ascoltare, suggerire. La differenza tra un avvocato e un ex allenatore è l’amore per il gioco».
Ex allenatore. Come ha deciso di diventare procuratore?
«Dopo un esonero. D’impulso. Stavo a Montegranaro, mi hanno esonerato. Ho pensato: basta, non alleno più. Sulla strada di casa mi sono fermato a San Marino, dove stava Capicchioni, ai tempi il grande gestore della pallacanestro italiano. Mi ha chiesto: vuoi fare il procuratore? Vediamo se ne sei capace: prova a fare reclutamento». E lei? «Ho contattato i miei amici e ho chiesto: vi serve un procuratore? Se lo fai tu sì, rispondevano. In pochi giorni avevo già una scuderia di 30 tecnici».
Il presidente federale Petrucci dice che i procuratori sono il male del basket.
«Ci sono buoni e cattivi procuratori, come buoni e cattivi dirigenti».
Lei rappresenta anche una settantina di giocatori. «Esatto». Vogliamo parlare di conflitto di interessi?
«So dove si vuole arrivare: prima piazzo un allenatore, poi “consiglio” un giocatore...». Esatto. «Mi sento di escluderlo». Perché? «Perché sono stato un allenatore. E da allenatore non avrei mai sopportato che mi venisse imposto un giocatore».
Ha mai pensato di tornare ad allenare?
«All’inizio della mia carriera di procuratore, quando andavo a proporre i miei clienti, qualche presidente mi chiedeva: ma perché non lo fai tu? Un paio di volte ho vacillato».
Non mi limito a trattare un ingaggio: per quello basta un avvocato
Lei, campano, vive in Brianza da 30 anni, da quando ha allenato Desio. «Ma non morirò a Desio...». Facciamo gli scongiuri. Si sente sempre uomo del Sud?
«La Brianza mi ha insegnato il lavoro giornaliero, la precisione negli appuntamenti, l’ordine. Io ci ho aggiunto l’estro da meridionale».
A proposito di estro: che cosa ha pensato quando ha visto il suo cliente Pozzecco strapparsi la camicia durante il derby con Milano? «Quello è Pozzecco...». Perché ha fallito a Varese? «Per troppo amore». Non ha paura che si sia bruciato come allenatore?
«Non vuole più farlo, l’allenatore. Ora studierà da manager. Però io uno come Pozzecco, unico ex cestista riconosciuto fuori dal basket come era per Meneghin, se fossi un responsabile della pallacanestro italiana me lo terrei ben stretto. Perché lui ama questo gioco». Come Virginio Bernardi? «Forse anche di più».
Un allenatore va capito nei suoi desideri e nelle sue insicurezze L’errore più grande per un presidente è voler scegliere il tecnico