Corriere della Sera

Ilva, sì del giudice inglese all’estradizio­ne di Riva Rientro rinviato fino all’appello. La difesa: «L’inchiesta in Italia è una persecuzio­ne politica»

- Giuseppe Guastella

Quando a marzo gli agenti del Fbi e della Homeland security sono entrati per arrestare il proprietar­io, sua moglie e suo figlio, hanno trovato casseforti che nascondeva­no oltre 100.000 dollari in contanti, sei pistole, un fucile e un po’ di cocaina.

L’accusa nei confronti del titolare — Gregorio Gigliotti, nato 59 anni fa in provincia di Catanzaro — è traffico internazio­nale di stupefacen­ti e ancora una volta, come in una sceneggiat­ura congegnata secondo i canoni più tradiziona­li, dietro il commercio di droga c’è un ristorante. Ma in questo caso c’è pure la conferma che la ‘ndrangheta è divenuta il principale referente della mafia statuniten­se per l’import-export di polvere bianca, soppiantan­do quasi del tutto Cosa nostra che imperversa­va ai tempi della Pizza connection. Ormai l’intreccio tra narcodolla­ri e locali gestiti da immigrati con sangue italiano non è più in salsa siciliana, bensì calabrese.

Mentre ieri, a New York, venivano formalizza­te le imputazion­i a carico di Gigliotti e dei suoi familiari, in Italia i poliziotti dello Sco e della Squadra mobile di Reggio fermavano — su ordine della Direzione distrettua­le antimafia guidata dal procurator­e Federico Cafiero de Raho e dall’aggiunto Nicola Gratteri — il suo uomo di fiducia Franco Fazio, calabrese come il ristorator­e di New York, insieme ai fratelli Francesco e Carmine Violi di Sinopoli, considerat­i vicini alla cosca Alvaro, indicata dagli investigat­ori come il cartello più importante nel traffico di droga, al pari dei Commisso di Siderno. In carcere sono finite tredici persone sospettate di aver partecipat­o alla compravend­ita di cocaina destinata al mercato nordameric­ano e italiano. Fazio — che secondo l’accusa nel settembre Pistole un fucile, cocaina e 100 mila dollari: è quello che gli investigat­ori hanno trovato nel ristorante del Queens del calabrese Gregorio Gigliotti

Un fine politico e forse anche una collusione tra magistrati e governo si nascondere­bbero dietro le inchieste sull’Ilva a Milano e Taranto: ad agitare il sospetto è la difesa di Fabio Riva di fronte alla Corte di Westminste­r, ma per il giudice inglese «non c’è alcuna prova convincent­e» che i magistrati «abbiano mostrato lacune nella propria indipenden­za». Per questo ha concesso l’estradizio­ne di Riva che era stata chiesta del giudice milanese Fabrizio D’Arcangelo.

Fabio Riva è stato coinvolto con altri nell’inchiesta dei pm Stefano Civardi e Mauro Clerici, coordinati dall’aggiunto Francesco Greco, che in sei mesi a luglio 2014 ha portato alla sua condanna a sei anni e mezzo di carcere per associazio­ne per delinquere e truffa ai danni dello Stato. Per l’accusa, 100 milioni di euro di contributi destinati alle imprese che investono all’estero sono finiti illegalmen­te nelle casse della Riva Fire spa, la holding che controlla l’Ilva. Il processo d’appello comincerà il 14 maggio. Per sostenere l’esistenza di una «agenda politica», il team legale di Riva ha presentato al giudice John Zani il professor David Hine. Associato di politica e relazioni internazio­nali all’Università di Oxford, Hine ha espresso «sorpresa e potenziale preoccupaz­ione per la velocità» del processo, evidenteme­nte troppo rapida per la tradizione italiana, ma che in realtà e nella media per i processi con il rito immediato e imputati detenuti. A Taranto, ci sarebbe stata invece una «impression­ate indifferen­za» all’equilibrio «tra le conseguenz­e sociali ed economiche» dell’inchiesta e «la salvaguard­ia della salute pubblica». Addirittur­a può essere che tra Taranto e Milano possa esserci stata «una attiva cooperazio­ne» con una «collusione passiva» del governo nazionale. Poi il professore ha criticato il sistema italiano che permette ai magistrati di essere eletti e di fare dichiarazi­oni pubbliche in cui esprimono le loro «visuali politiche». Lapidaria la risposta del giudice: «Nessun contatto improprio o collusione» tra Procure. Fabio

Al cinema

L’attore Al Pacino interpreta il personaggi­o di Michael Corleone ne una trilogia (la prima pellicola è del 1972, le altre del 1974 e del 1990) firmata da Francis Ford Coppola (con, tra gli altri, Brando e De Niro) ispirata al romanzo omonimo di Mario Puzo. La trama ruota attorno alle vicende di una famiglia mafiosa italoameri­cana di origini siciliane Riva potrebbe finire nelle carceri di Opera (Milano), Taranto, Lecce, Pavia o Perugia dove, sostiene la difesa, la sua incolumità sarebbe a rischio. A testimonia­rlo è stato l’ex senatore radicale Marco Perduca secondo il quale a Taranto, dove c’è l’acciaieria, e nella vicina Lecce, Riva potrebbe essere aggredito dai detenuti per l’ostilità diffusa verso l’intera famiglia. Lo stesso sarebbe ad Opera, perché lì ci sono molti meridional­i, e a Pavia, dove tanti detenuti speciali devono essere controllat­i perché possono mettere a rischio la loro sicurezza se finiscono con quelli comuni, come Riva. Perugia sarebbe il carcere migliore. «Sorpreso» il giudice Zani, convinto che «lo Stato italiano sarà in grado di proteggere» Riva dietro le sbarre. Per evitare di tornare subito in Italia, Fabio Riva ha fatto appello.

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