Ilva, sì del giudice inglese all’estradizione di Riva Rientro rinviato fino all’appello. La difesa: «L’inchiesta in Italia è una persecuzione politica»
Quando a marzo gli agenti del Fbi e della Homeland security sono entrati per arrestare il proprietario, sua moglie e suo figlio, hanno trovato casseforti che nascondevano oltre 100.000 dollari in contanti, sei pistole, un fucile e un po’ di cocaina.
L’accusa nei confronti del titolare — Gregorio Gigliotti, nato 59 anni fa in provincia di Catanzaro — è traffico internazionale di stupefacenti e ancora una volta, come in una sceneggiatura congegnata secondo i canoni più tradizionali, dietro il commercio di droga c’è un ristorante. Ma in questo caso c’è pure la conferma che la ‘ndrangheta è divenuta il principale referente della mafia statunitense per l’import-export di polvere bianca, soppiantando quasi del tutto Cosa nostra che imperversava ai tempi della Pizza connection. Ormai l’intreccio tra narcodollari e locali gestiti da immigrati con sangue italiano non è più in salsa siciliana, bensì calabrese.
Mentre ieri, a New York, venivano formalizzate le imputazioni a carico di Gigliotti e dei suoi familiari, in Italia i poliziotti dello Sco e della Squadra mobile di Reggio fermavano — su ordine della Direzione distrettuale antimafia guidata dal procuratore Federico Cafiero de Raho e dall’aggiunto Nicola Gratteri — il suo uomo di fiducia Franco Fazio, calabrese come il ristoratore di New York, insieme ai fratelli Francesco e Carmine Violi di Sinopoli, considerati vicini alla cosca Alvaro, indicata dagli investigatori come il cartello più importante nel traffico di droga, al pari dei Commisso di Siderno. In carcere sono finite tredici persone sospettate di aver partecipato alla compravendita di cocaina destinata al mercato nordamericano e italiano. Fazio — che secondo l’accusa nel settembre Pistole un fucile, cocaina e 100 mila dollari: è quello che gli investigatori hanno trovato nel ristorante del Queens del calabrese Gregorio Gigliotti
Un fine politico e forse anche una collusione tra magistrati e governo si nasconderebbero dietro le inchieste sull’Ilva a Milano e Taranto: ad agitare il sospetto è la difesa di Fabio Riva di fronte alla Corte di Westminster, ma per il giudice inglese «non c’è alcuna prova convincente» che i magistrati «abbiano mostrato lacune nella propria indipendenza». Per questo ha concesso l’estradizione di Riva che era stata chiesta del giudice milanese Fabrizio D’Arcangelo.
Fabio Riva è stato coinvolto con altri nell’inchiesta dei pm Stefano Civardi e Mauro Clerici, coordinati dall’aggiunto Francesco Greco, che in sei mesi a luglio 2014 ha portato alla sua condanna a sei anni e mezzo di carcere per associazione per delinquere e truffa ai danni dello Stato. Per l’accusa, 100 milioni di euro di contributi destinati alle imprese che investono all’estero sono finiti illegalmente nelle casse della Riva Fire spa, la holding che controlla l’Ilva. Il processo d’appello comincerà il 14 maggio. Per sostenere l’esistenza di una «agenda politica», il team legale di Riva ha presentato al giudice John Zani il professor David Hine. Associato di politica e relazioni internazionali all’Università di Oxford, Hine ha espresso «sorpresa e potenziale preoccupazione per la velocità» del processo, evidentemente troppo rapida per la tradizione italiana, ma che in realtà e nella media per i processi con il rito immediato e imputati detenuti. A Taranto, ci sarebbe stata invece una «impressionate indifferenza» all’equilibrio «tra le conseguenze sociali ed economiche» dell’inchiesta e «la salvaguardia della salute pubblica». Addirittura può essere che tra Taranto e Milano possa esserci stata «una attiva cooperazione» con una «collusione passiva» del governo nazionale. Poi il professore ha criticato il sistema italiano che permette ai magistrati di essere eletti e di fare dichiarazioni pubbliche in cui esprimono le loro «visuali politiche». Lapidaria la risposta del giudice: «Nessun contatto improprio o collusione» tra Procure. Fabio
Al cinema
L’attore Al Pacino interpreta il personaggio di Michael Corleone ne una trilogia (la prima pellicola è del 1972, le altre del 1974 e del 1990) firmata da Francis Ford Coppola (con, tra gli altri, Brando e De Niro) ispirata al romanzo omonimo di Mario Puzo. La trama ruota attorno alle vicende di una famiglia mafiosa italoamericana di origini siciliane Riva potrebbe finire nelle carceri di Opera (Milano), Taranto, Lecce, Pavia o Perugia dove, sostiene la difesa, la sua incolumità sarebbe a rischio. A testimoniarlo è stato l’ex senatore radicale Marco Perduca secondo il quale a Taranto, dove c’è l’acciaieria, e nella vicina Lecce, Riva potrebbe essere aggredito dai detenuti per l’ostilità diffusa verso l’intera famiglia. Lo stesso sarebbe ad Opera, perché lì ci sono molti meridionali, e a Pavia, dove tanti detenuti speciali devono essere controllati perché possono mettere a rischio la loro sicurezza se finiscono con quelli comuni, come Riva. Perugia sarebbe il carcere migliore. «Sorpreso» il giudice Zani, convinto che «lo Stato italiano sarà in grado di proteggere» Riva dietro le sbarre. Per evitare di tornare subito in Italia, Fabio Riva ha fatto appello.