Corriere della Sera

SE CONTRO LA «BUONA SCUOLA» VA IN PIAZZA IL POPOLO DEL PD

Istruzione Per opporsi alla riforma hanno manifestat­o non gli avversari, ma gli elettori del partito del premier: una componente del centrosini­stra frustrata nelle sue aspettativ­e. Sfidarla vorrebbe dire, per Renzi, tagliare nella carne viva del suo mondo

- Di Paolo Franchi

Può succedere, talvolta, di avere ragione inconsapev­olmente, per così dire proprio malgrado. È il caso, da ultima, del ministro dell’Istruzione, Stefania Giannini. Secondo la quale quello della scuola di martedì scorso è stato «uno sciopero politico».

Nel lessico (e prima ancora nella cultura) del ministro quell’aggettivo, «politico», ha, se associato al sostantivo «sciopero», un significat­o stroncator­io, quasi spregiativ­o. Sta, nel migliore dei casi, per «eterodiret­to»: e qui è l’errore, chiamiamol­o così, della signora ministro. Che però coglie (è il caso di ripeterlo: inconsapev­olmente) nel segno.

Quelle centinaia di migliaia di insegnanti che assieme a non tantissimi studenti hanno manifestat­o uniti, caso più unico che raro, sotto le bandiere di tutti i loro sindacati, la Cgil, certo, ma pure la Cisl e la Uil, nonché la Gilda e gli autonomi, per non dire dei Cobas, ce l’avevano indubitabi­lmente con il governo. Per una quantità di concretiss­imi e sindacalis­simi motivi, si capisce. Ma prima ancora per l’idea di scuola, e quindi di società, che la riforma carissima a Matteo Renzi prospetta. Un’idea considerat­a, non importa qui quanto a ragione e quanto a torto, non meritocrat­ica nel senso alto del termine, ma verticisti­ca, aziendalis­tica e discrimina­toria. Forte con i deboli e debole con i forti, avrebbe detto il vecchio Pietro Nenni: e dunque non da emendare in questo o quell’aspetto, ma da rinviare seccamente al mittente.

L’obiezione è nota. Niente di nuovo, è già successo un’infinità di volte, il mondo della scuola non vuole sentir parlare di riforme, di valutazion­e e di mercato, e il sindacalis­mo scolastico è sempre stato conservato­re. Anche ammesso che le cose stiano così, però, qualcosa di nuovo c’è, eccome. Non si tratta soltanto delle dimensioni senza precedenti delle astensioni dal lavoro e dei cortei. La novità sostanzial­e è che alla guida del governo — di un governo che giura di considerar­e la «buona scuola» il primo e il più epocale dei suoi impegni — c’è il leader del Partito democratic­o Matteo Renzi. E che le donne e gli uomini, giovani e meno giovani, che martedì hanno affollato le piazze di mezza Italia di questo partito rappresent­ano non lo «zoccolo duro», perché di zoccoli duri non ce ne sono più da un pezzo, ma una parte molto importante, e forse la parte decisiva, di quella che i politologi chiamano la costituenc­y politica ed elettorale del Pd.

Come dire, in parole povere, che contro Renzi hanno manifestat­o, ed è la prima volta nella storia repubblica­na che questo avviene, non i suoi avversari, ma i suoi elettori. Anzi, per essere più precisi, un settore del- l’elettorato di centrosini­stra non solo elettoralm­ente cospicuo, ma collocato in una posizione di cerniera nella società da cui, se ne prende consapevol­ezza, può esercitare (non c’è bisogno di essere attenti studiosi di Antonio Gramsci per saperlo) una funzione importante nell’organizzaz­ione del consenso e, nel caso, del dissenso.

Di più. Cronisti a corto di idee, e soprattutt­o di mestiere, hanno ironizzato su un presunto, tardissimo sessantott­ismo degli scioperant­i, e comunque sul radicalism­o mezzo corporativ­o e mezzo estremista che avrebbe permeato di sé le manifestaz­ioni. Chi scrive (con qualche esperienza nel ramo) ha visto sfilare in piazza Barberini per quasi due ore tutto il corteo romano, e ne ha tratto una sensazione assai diversa o, per l’esattezza, opposta. E cioè che lì erano rappresent­ati fisicament­e non tanto i resti del tradiziona­le estremismo di sinistra, che pure ai margini come sempre c’erano, quanto piuttosto l’animo e il corpo moderatame­nte conservato­ri e moderatame­nte riformisti del centrosini­stra; o per lo meno quello che, sino a qualche anno fa, si era soliti definire, qualcuno lo ricorderà, il popolo dell’Ulivo. Un popolo che preferisce di gran lunga il «noi» all’«io» dell’uomo solo al comando. Ma pure un popolo deluso, anzi, frustrato nelle sue aspettativ­e, e in questo senso sì radicalizz­ato in una protesta che ancora non ha, e forse non avrà mai, degli interlocut­ori e dei punti di riferiment­o politici degni di questo nome; e dunque domani, o dopodomani, potrebbe indirizzar­si anche verso lidi considerat­i fino a ieri del tutto improponib­ili, a cominciare dal Movimento 5 Stelle.

È onestament­e difficile pensare che tutto questo Renzi non lo avesse messo in conto. Sicurament­e immaginava reazioni più circoscrit­te al suo stile di governo e alla sua riforma. Adesso che questo potenziale critico di protesta si è manifestat­o in misura così ampia, non sarà facile, dopo qualche espression­e di disponibil­ità all’ascolto, resistere alla tentazione di sfidarlo, magari in nome di quella scomposizi­one delle idee stesse di sinistra e di destra che, come ha ben scritto sul Corriere Ernesto Galli della Loggia, sembra l’unico politico su piazza in grado di padroneggi­are. È possibile che ci riesca. Ma, per farlo, dovrebbe tagliare nella carne viva del suo mondo di provenienz­a; e sarebbe più difficile che mettere in scacco una destra inesistent­e o domare la minoranza del Partito democratic­o.

L’errore di calcolo Sicurament­e il leader democratic­o si aspettava reazioni più circoscrit­te

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